Riconciliare due popoli

Gli errori del passato vanno riconosciuti non per scavare nuovi fossati tra Turchia e Armenia, ma per costruire un nuovo cammino di pace fondato sulla realtà storica
fRANCESCO E KARENIN II

Perché la Turchia nega «il grande male»? I motivi del massacro degli armeni sono complessi, perché s’intrecciano storia, politica e religione. Il pretesto fu l’arruolamento di alcuni armeni nell’esercito russo che premeva sui confini turchi sulla spinta della rivoluzione bolscevica; gli armeni, in realtà, erano osservati con sospetto anche per la diversità della loro religione cristiana considerata non affidabile, e per il privilegiato stato sociale, culturale ed economico.

Comunque la si chiami, la decisione turca è stata scellerata, perché ha causato, più di un milione di morti e la diaspora della massima parte degli armeni sopravvissuti. 7 milioni ormai vivono in vari Paesi del mondo e 3 milioni (scarsi) in patria.

 

Il papa ha pronunciato sabato la parola tanto discussa «genocidio» davanti ai cinquantamila della piazza della Repubblica di Yerevan. Nell’affollata sala stampa 600 giornalisti che seguivano il viaggio del papa hanno applaudito con un tifo quasi da stadio. Lo stesso termine, «genocidio» lo aveva già pronunciato in piazza San Pietro, nell’aprile del 2015, in occasione del centenario del massacro.

 

Ma questa non è stata la parola-chiave del suo discorso. Al centro c’era l’invito a riprendere il cammino di riconciliazione e di pace tra il popolo armeno e quello turco. La memoria e la ricostruzione storica della realtà su quanto accaduto non voleva certo provocare nuove divisioni e ferite, ma risanare il passato, purificarlo.

 

Nel suo viaggio di ritorno in aereo a Roma, Bergoglio ha specificato che «la parola genocidio mai io l’ho detta con animo offensivo, ma oggettivamente». Come un fatto storico, ormai documentato. Ma ecco la risposta completa alla domanda: «Perché ha deciso di aggiungere la parola «genocidio» nel suo discorso al palazzo presidenziale? Su un tema doloroso come questo, pensa che sia utile per la pace?».

 

Il papa ha risposto: «In Argentina, quando si parlava di sterminio armeno, sempre si usava la parola “genocidio” e nella cattedrale di Buenos Aires, nel terzo altare a sinistra, abbiamo messo una croce di pietra ricordandolo. Io non conoscevo un’altra parola. Quando arrivo a Roma sento l’altra parola “Grande Male” e mi dicono che “genocidio” è parola offensiva. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso: quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin. Ce n’è stato un altro in Africa ma nell’orbita delle due grandi guerre ci sono quei tre. Alcuni dicono che non è vero, che non è stato un genocidio. Un legale mi ha detto che è una parola tecnica, che non è sinonimo di sterminio. Dichiarare un genocidio comporta azioni di riparazione. L’anno scorso, quando preparavo il discorso per la celebrazione in San Pietro, ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, e io ho citato tra virgolette ciò che aveva detto. Non è stato ricevuto bene, è stata fatta una dichiarazione del governo turco che ha richiamato in pochi giorni l’ambasciatore ad Ankara, ed è un bravo ambasciatore! È tornato alcuni mesi fa. Tutti hanno diritto alla protesta. Non c’era la parola nel discorso. Ma dopo aver sentito il tono del discorso del presidente armeno, e per il mio uso della parola, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso che avevo detto l’anno scorso. Ma venerdì scorso ho voluto sottolineare un’altra cosa: in questo genocidio, come negli altri due successivi, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. Durante la Seconda guerra mondiale, alcune potenze avevano la possibilità di bombardare le ferrovie che portavano ad Auschwitz, e non l’hanno fatto. Nel contesto dei tre genocidi si deve fare questa domanda storica: perché non avete fatto qualcosa? Non so se è vero, ma si dice che Hitler quando perseguitava gli ebrei, avesse detto: “Chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei”. Ma la parola genocidio mai io l’ho detta con l’animo offensivo, ma oggettivamente».

 

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Su questo argomento si può consultare il volume pubblicato nella collana Testi patristici di Città Nuova, n. 182 (a cura di Riccardo Pane): Storia di Vardan e dei martiri armeni di Elise.

La storia armena del V secolo è segnata da un evento decisivo per l'identità nazionale ed ecclesiale: la battaglia di Avarayr. Politicamente soggetti ai Persiani, gli Armeni si impegnano in una tenace resistenza nel momento in cui si vedono costretti a rinnegare la propria fede cristiana.

Un esercito di valorosi capeggiati da Vardan Mamikonean viene alle armi con i Persiani il 2 giugno 451 presso Avarayr. Elise – di cui sappiamo poco, probabilmente egli stesso impegnato nella battaglia – ripercorre gli eventi, offrendo una lettura in chiave storico – salvifica della lotta antipersiana.

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