Ricomincio da tre
A sorpresa, ma con pieno merito, ha vinto Crash di Paul Haggis, anche miglior sceneggiatura originale, mentre al favorito I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee è andato l’Oscar per la miglior regia, oltre a quello per la miglior sceneggiatura non originale. Philip Seymour Hoffman miglior attore per Truman Capote – A sangue freddo e Reese Witherspoon miglior attrice per Quando l’amore brucia l’anima. I film in concorso quest’anno sono tutti nati lontano dagli studios, dalle grandi case produttrici: raccontano temi forti, come l’anticomunismo di Good Night and Good Look di George Clooney, l’omosessualità fra cow boy dei Segreti di Brokeback Mountain, o il trasgressivo Memorie di una geisha (ma questa è una svista e probabilmente si intendeva accennare a Transamerica – nda) e sono il prodotto delle battaglie di tanti indipendenti che hanno sofferto e rischiato per arrivare fin qui. Così Cristina Comencini – cogliendo il senso più autentico dell’edizione 2006, dove era in gara con La bestia nel cuore – ha raccontato l’Oscar in un’intervista rilasciata a Barbara Palombelli. Un Oscar che assume una configurazione politica con una netta divisione fra la linea conservatrice e tradizionalista delle grandi major e lo spirito innovativo delle produzioni indipendenti che non esitano ad affrontare argomenti spinosi e ancora al bando fino a non molto tempo fa. Quando, all’inizio degli anni Trenta, Ben Hecht scrisse Scarface per Howard Hawks disse che la sua sceneggiatura era un passaporto per la città proibita, per varcare quella frontiera oltre la quale non si può andare a meno di infrangere la legge, la morale, le convenzioni, i costumi. Insomma, un viaggio che la realtà rende difficile o quantomeno problematico e consentito invece dalla finzione. A queste regole sembra abbia voluto obbedire la 78ª edizione, con film che consentono di entrare nella città proibita dell’omosessualità, della transessualità, del terrorismo, della cospirazione politica e del delitto esplorato nei suoi risvolti più ambigui. Se per i 5798 membri dell’Academy Award la statuetta per il miglior film straniero ha un’importanza del tutto marginale (tanto è vero che soltanto 300 di loro sono delegati al voto), a parte la curiosità per il poker di maggior effetto, per noi, con un film italiano in lizza, l’interesse si è invece concentrato sull’esito conseguito dai colori nazionali. Nell’ultimo ventennio il traguardo della mitica statuetta è stato tagliato da Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore nel 1990, Mediterraneo di Gabriele Salvatores nel 1992, La vita à bella di Roberto Benigni nel 1999 e soltanto sfiorato da La famiglia di Ettore Scola nel 1988, Porte aperte di Gianni Amelio nel 1991, L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore nel 1996. Per il 2006, dopo l’esclusione di Private di Saverio Costanzo perché parlato in inglese e quindi penalizzato dal regolamento, le speranze del cinema italiano si sono concentrate sulla Bestia nel cuore, film che per la sua rappresentazione di un’Italia assai poco di maniera e niente affatto convenzionale per la scelta del tema (l’incesto, la pedofilia) si allinea a quella tendenza di estrema e cruda indagine critica nel voler frugare a fondo tra le pieghe più riposte della psiche e dei rapporti sociali che rappresentano il comune denominatore dei candidati nelle categorie di punta. Fatta eccezione per il francese Joyeux Noe¨l, fiacco e retorico, il film di Cristina Comencini ha dovuto vedersela con una concorrenza agguerrita. Il sudafricano Tsotsi di Gavin Hood aveva dalla sua il piglio che si addice a una storia intensa e drammatica, dove il risveglio di coscienza di un giovane malvivente cresciuto nei ghetti neri di Johannesburg si realizza attraverso la scoperta di sentimenti fino ad allora sconosciuti. Film di ottima qualità anche il palestinese Paradise Now, indagine sulle condizioni che spingono a imboccare la via degli attentati suicidi e a sacrificare la propria vita in azioni terroristiche e il tedesco La Rosa Bianca che rievoca la coraggiosa protesta contro il regime nazista da parte di alcuni studenti di Monaco nel 1943. Un bel confronto, dove l’ha spuntata Tsotsi, agevolato dalla cornice emotiva con cui è riuscito a contornare il quadro d’assieme, ovvero da una condizione di emarginazione resa quanto mai attuale da casi analoghi di marginalità e discriminazione che si verificano quotidianamente nella società d’Oltreoceano. Punto e a capo. Anche se una nomination non è da buttar via, si ricomincia da dove eravamo rimasti: dai tre Oscar degli ultimi vent’anni.