Ricominciare dopo il rapimento
Un anno fa due suore italiane furono rapite nel Sud del Kenya e liberate dopo 102 giorni di prigionia. Intervista esclusiva per "Città nuova".
Un anno fa il rapimento. Era il 9 novembre 2008. Decine di guerriglieri armati le hanno portate via con violenza da Elwak, nel Sud del Kenya, sconfinando in Somalia, distante solo cinque chilometri. Loro, Rinuccia e Maria Teresa, sono due suore della provincia di Cuneo e appartengono al movimento missionario di Charles de Foucauld. Da 35 anni in Kenya e da 25 in missione a Elwak, hanno creato un piccolo ambulatorio e una casa di accoglienza a servizio degli ultimi: disabili, epilettici, malati di tubercolosi, mamme sole, bimbi denutriti. L’area, nella diocesi di Gari Hill, è estesa come l’Italia settentrionale, ma conta solo 70 mila abitanti. È terra di nessuno, sfugge a qualsiasi autorità, e la popolazione è quasi interamente musulmana.
Sono seguiti 102 giorni interminabili di prigionia e il 19 febbraio del 2009 finalmente libere!
Da allora sono in Italia per riposare, riprendersi e pregare («per noi la preghiera è già missione»). Nonostante il “silenzio” e un periodo di nascondimento, hanno accettato di rispondere ad alcune domande di Città nuova che leggevano «con gusto» anche in Kenya. «Affetto e riconoscienza – ci scrive suor Rinuccia – per la vostra solidarietà e preghiera». «Ci sentiamo in sintonia con voi – aggiunge suor Maria Teresa – nel cammino della vita e siamo uniti ai membri del Focolare del Kenya». Quelle che seguono sono le risposte di suor Maria Teresa Olivero, 61 anni. Nel riquadro troverete, invece, una sintesi dell’esperienza di suor Rinuccia Giraudo, 67 anni.
Maria Teresa, cosa ricordi della notte del 9 novembre del 2008?
«Ho impressi con chiarezza estrema i sentimenti provati in quel momento. Rivedo i fasci di luce della pila elettrica, la polvere alzata dalla porta che, sotto decine e decine di colpi di arma da fuoco, ha ceduto. I rapitori armati entrati con violenza e decisi a portarci via. La nostra consegna a loro e gli strattoni che ci davano perché ci muovessimo senza esitare. Vedo Rinuccia senza scarpe trascinata per un lungo tratto. Io a terra colpita tre volte in testa col calcio del fucile e il sangue che scorreva sulla maglietta gialla».
Avete reagito?
«C’era solo da seguirli dove loro intendevano portarci, un clima di resa e di consegna obbligate. Percepivamo l’unità tra di noi che ci dava forza, e la preghiera che scorreva nel cuore: “Signore, salvaci… Signore, tu sei con noi”».
Vi siete sentite “abbandonate da Dio” o in che modo lo avete sentito vicino?
«La vicinanza del Signore nella nostra realtà di prigionia è stata una percezione costante. Tanta preghiera fatta insieme, anche nel cuore della notte, ci ha sorrette nei momenti più duri. Eravamo provate da una incertezza tremenda. Solo dopo circa un mese c’è stato il primo contatto per le trattative che in tutto sono state appena tre in 102 giorni».
Hai temuto di morire?
«Sono veramente arrivata in certi momenti a gustare il limite delle energie spirituali, psicologiche e fisiche che avevo. Mi sforzavo di resistere rimanendo nel momento presente. A volte sentivo il bisogno di evadere dalla realtà, allora con coraggio mi dicevo: “Mari, sei proprio qui in Somalia in ostaggio e in pericolo con Rinuccia, ma sei nelle mani di Dio”. Dirmi la verità mi sosteneva ed era importante per sopravvivere».
Un episodio che ti ha dato sollievo?
«La sera, mentre dormivamo sulla stuoia sotto le stelle, attorniate da una trentina dei nostri custodi armati avevo confidato a Rinuccia il mio tremendo timore quando ci avrebbero portate a Mogadiscio. Temevo chi ci avrebbe fatto un severo interrogatorio. Arrivate il giorno successivo a destinazione, la Range Rover infila il cancello di una abitazione raschiando contro il muro a causa della velocità. Veniamo accompagnate in una stanza con in terra un materassino di spugna, per riposarci: acqua a sufficienza per lavarci e i vestiti puliti. Ci serve il pasto, a terra, una gentile signora con il burqa e con in braccio Abdi, uno splendido bimbo di sei mesi. Un sollievo grande, che verrà poi oscurato da altri incontri, ma che ci ha fatto un gran bene nella nostra situazione dolorosa».
Cosa ti manca della missione in Kenya?
«Siamo state “strappate brutalmente” ai nostri amici musulmani poveri di Elwak. Ci stringe il cuore pensarli in questo periodo di siccità e quindi di fame nera. Sono tantissimi i bimbi stremati a causa della malnutrizione, le mamme sono anemiche ed hanno bisogno di essere sostenute. In modo tanto particolare ci sanguina il cuore al pensiero delle decine di ragazzi e giovani epilettici che Rinuccia aveva sotto terapia. E, ancora, le persone lasciate ai margini della società, che da anni trovavano la porta della nostra casa aperta ogni volta che si trovavano in difficoltà».
Che segno lasciano 102 giorni di prigionia nel fisico e nell’anima?
«Un segno che la prigionia ha lasciato in me è la percezione di aver fatto un tratto di strada con tante persone che nel mondo vivono situazioni di ingiustizia. Nei confronti dei rapitori credo che la nostra parte sia di rinunciare ad ogni giudizio, di lasciare che l’amore di Dio purifichi sempre di più il nostro cuore perché questa vicenda porti frutti di pace e di comunione. L’esperienza mi dice che le sofferenze vissute hanno bisogno di tempo e di pazienza per essere integrate. Ho avuto estremo bisogno di un clima di preghiera e di calma attorno a me».
Programmi per il futuro?
«Sto facendo l’anno di “deserto” in comunità, che si conclude con i 40 giorni di preghiera. So di essere attesa dai nostri del Kenya e sento in cuore la gioia del ritorno nella fraternità tra i baraccati di Nairobi, dove ho vissuto la maggior parte degli anni della mia vita. Per ora a Elwak non c’è sicurezza sufficiente per poter tornare, ma ci teniamo in contatto con le persone amiche del posto».
a cura di Aurelio Molè
«Vivere in modo nuovo»
Stralci dei ricordi di suor Rinuccia Giraudo.
Siamo state private di tutto, proprio di tutto! Ma non certo della presenza del Signore Gesù, diventato “prigioniero” anche lui, in quello spazio in cui eravamo rinchiuse sotto una continua sorveglianza armata. I colori del nostro stupore, nel corso di questo anno, si sono fatti sempre più distinti, più intensi.
La notte del rapimento abbiamo avuto solo la capacità di cogliere attimo per attimo ciò che stava succedendo senza riuscire a pensare nulla di più. Ci hanno fatto attraversare di corsa la cittadina di Elwak, che ricordo come impietrita in nessun modo scossa dalle nostre grida di soccorso che quei giovani cercavano di zittire. Dopo di che ci hanno sistemate nel sedile posteriore di una Land-Rover bianca. Da quel momento siamo diventate sempre più coscienti di non essere rimaste sole in mano a loro: in quel momento è cominciato il nostro colloquio di fede, per lo più un continuo «Gesù, confido in te! Gesù, salvatore, salvaci!».
Non posso fare a meno di riconoscere l’azione straordinaria dell’amore di Dio che, alla provocazione di quei giovani: «Siete musulmane o cristiane?» (come dire: «Siete dei nostri o siete del fronte rivale?»), sono sbocciate delle parole, come fossero un raggio di sole, sulle labbra di Maria Teresa: «Noi siamo quelle che amano tutti nel nome di Dio!».
Cogliere tutto il possibile positivo in loro e metterlo timidamente in evidenza ci liberava da una certa paura, tanto da riuscire ad esprimere una lieve fiducia nei loro confronti. Quello che siamo in quanto a età, fede ed esperienza ci permetteva di vedere ciò che stavamo vivendo in tutta la sua crudezza. E anche tra i giovani cresceva la fiducia verso di noi: che non era mollare sulle norme e lo stile del loro “lavoro”, ma qualcosa che non ci lasciava trattare da nemici.
Non basterà la vita, pur nella nostra fragilità e debolezza, per ringraziare Dio per come ci ha fatto vivere quei 102 giorni e poi la felicità, nostra e di tutti, della liberazione, di un vivere quasi in modo del tutto nuovo le cose di prima.