Ricercatori, tra protesta e confronto

Il rettore di Bologna ha annunciato che i posti lasciati vuoti da chi non intende insegnare saranno affidati a docenti esterni. I ricercatori rispondono invitando i propri interlocutori alla loro assemblea.
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«Il diritto degli studenti all’istruzione è sacrosanto, ma non è garantendo la quantità invece della qualità che lo si tutela». È perentoria l’opinione della ricercatrice già intervistata da Città Nuova – e rimasta anonima per le ragioni spiegate nel precedente articolo – sull’iniziativa del rettore di Bologna, che ha imposto ai ricercatori una sorta di ultimatum: entro le 12 di venerdì 17 settembre dovranno comunicare la loro disponibilità o meno a svolgere attività didattica. In caso di rifiuto oppure di silenzio, i posti vacanti saranno messi al bando a docenti esterni.

 

A prima vista, la cosa non fa una grinza: l’Università, per assicurare che tutti i corsi partano (i ricercatori coprono in media, a titolo gratuito e senza alcun obbligo di legge, il 40 per cento della didattica), fa la conta di chi c’è e chi no. Ma i ricercatori, tra cui quelli della Rete 29 aprile di cui la nostra amica fa parte, ritengono che la questione non si esaurisca così: «Questa politica – spiega la ricercatrice – significa affermare che si può fare a meno di noi, e che la didattica può essere affidata a chiunque». Tanto più se si considera che, a causa della scarsità di risorse finanziarie, «molti contratti saranno a titolo gratuito o comunque sottopagati». Si aprirebbe dunque, come ha affermato in un’intervista a La Repubblica il ricercatore torinese Alessandro Ferretti, una sorta di guerra tra poveri che, pur di accaparrarsi un incarico, accettano qualunque cosa e senza alcuna garanzia di qualità dell’insegnamento. «Un sistema in cui – scrive su Unilex il chimico napoletano Alessandro Pezzella – chi insegna è reclutato in base ad esigenze occasionali e alle disponibilità finanziarie dell’ateneo, in cui si appalta quella che è la funzione propria dell’istituto come in una qualsiasi azienda». In quanto al diritto ad avare un docente, afferma: «Credo che molti studenti preferiscano rinviare di un semestre un percorso serio per lavorare al proprio futuro, piuttosto che rattoppare il piano di studi».

 

Curiosa coincidenza – o forse no – il fatto che l’ultimatum bolognese scada proprio quando i ricercatori italiani saranno riuniti in assemblea a Roma, presso La Sapienza. «In quell’occasione – prosegue la ricercatrice – verrà certamente stilato un documento in cui prenderemo posizione a questo proposito». Come già altre volte, i ricercatori non si limitano a protestare, ma intendono proporre: «Riteniamo che la soluzione stia in un tavolo aperto anche alla società civile per la costruzione di un progetto universitario condiviso. Come ha osservato anche il presidente Napolitano, una riforma non si fa senza le parti sociali».

 

Intanto sul sito della Rete 29 aprile prosegue la conta dei ricercatori indisponibili alla didattica: a segnalare la propria adesione sono per ora in più di 10 mila. Luogo cardine della protesta è la facoltà di architettura del Politecnico di Torino, dove l’adesione è stata quasi totale. Ai piedi della Mole, peraltro, stanno andando deserti anche i concorsi banditi per coprire i posti vacanti. A Padova la proposta provocatoria è che siano gli stessi ricercatori a farsi avanti per sedere alle cattedre appena disertate. Ad ogni modo, non sfuggono il confronto: i rettori italiani sono invitati all’incontro di venerdì 17 a Roma, così come «tutti coloro che, a prescindere dal ruolo che rivestono, credono fermamente che l’Università pubblica sia una straordinaria risorsa, e non una inguaribile malattia della società italiana».

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