Riccardo III nostro contemporaneo
Molti i registi che si sono cimentati nell’attualizzare la violenza con cui Shakespeare ricostruisce lo spasimo per il potere, il prezzo necessario per raggiungerlo e il dispregio per la vita, del sanguinario Riccardo III, lo storpio, crudele duca di Glouchester, capostipite di una famiglia di mostri fin troppo umani. Kriszta Székely, nota in Europa per alcune realizzazioni molto personali e intelligenti con cui ha rimesso a fuoco, da un’ottica contemporanea, diversi classici, e non solo, incentrati su una forte visione politica e civile, ha riscritto – col drammaturgo Ármin Szabó-Székely e la traduzione di Tamara Török – un Riccardo III oggi più che riconoscibile nel nostro tempo.
La giovane e affermata regista ungherese si chiede, tra il resto: «Chi è veramente questo personaggio che, senza scrupoli né morale, ambisce al potere, e che poi viene corroso proprio dallo stesso potere conquistato e dal suo senso di colpa? Io lo conosco? È lui che governa il mio paese? È il politico che ieri sera in televisione ha parlato della guerra con le lacrime agli occhi, e domani ne farà scoppiare una con un’espressione impassibile? O è un membro senza volto di quelle fondazioni che accumulano miliardi? O è il mio stesso capo, che dirige l’azienda dove lavoro?». All’insegna di un’attualità più che manifesta, e infarcendo i dialoghi di uno slang che tutti usiamo, Székely mette insieme famiglia e mafia finanziaria, social, giornalismo e geopolitica, con chiari riferimenti alle tensioni in atto – vengono citati Ucraina, Russia, Cina, Corea, Iran.
Nella scena fissa di un grande stanzone moderno che è casa, studio aziendale, baita (in un televisore fisso le immagini delle Alpi bavaresi, riferimento allo chalet che fu l’ultimo rifugio estivo di Hitler), il suo Riccardo III in abiti eleganti – come tutti i personaggi – si muove tra set televisivi, manipolazione dei media e fake news, macchinazioni e corruzione a più livelli, in un continuo blandire le coscienze che gravitano attorno a lui mentre tesse le uccisioni di tutti quelli, fratelli e nipoti, che rappresentano un ostacolo per la sua ascesa al trono. I cadaveri collezionati via via dentro sacchi neri di plastica – primo fra tutti quello di re Edoardo accatastato già dall’inizio custodito da Elisabetta, immobile nella sua solitudine di vedova poi sedotta dal perfido cognato – vengono ammucchiati in un angolo della scena, a ricordarci la “pienezza” dei tanti orrori di cui si macchierà il despota. In un mondo moralmente abbietto dove tutti i personaggi della grande tragedia scespiriana – qui caricature grottesche dei nostri giorni – sono macchiati di colpe altrettanto gravi ma, rispetto a Riccardo III, meno abili e agili nella manovra, egli si pone al di fuori e al di sopra di ogni etica.
Istrione spudorato e malvagio come i grandi dittatori, Riccardo III intende spiegare come il motore della storia non sia certo il bene. Tant’è vero che decide di agire, diventa costruttore di storia proprio nel raro momento di pace arrivato dopo quel lungo inverno di scontento che era stata la trentennale guerra delle Due Rose. Come a dire che solo il male è in grado di partorire un’altra fase storica e questo può avvenire solo prescindendo da qualunque regola etica già stabilita. Nonostante giunga ad essere maledetto anche dalla madre, Riccardo persegue il suo scopo fino ad essere annientato dalla sua stessa incontrollata brama di potere, prigioniero del proprio inferno, ucciso, si direbbe, da una solitudine che ha il suo stesso volto, il suo stesso ghigno. Il finale che Székely imbastisce nella sua ammonitrice esemplarità lo affida alla regina Elisabetta in tuta militare: «Non gusti mai il frutto di questo bel paese chi a tradimento recasse offese alla sua pace. E per garantire la pace, ordino l’acquisto immediato di mille mortai, trecento lanciarazzi M270, cinquecento carri armati K2 Black Panther, altri duemila veicoli blindati e mille droni militari, e tutto quello che è necessario. Perché Riccardo era un’infezione nel nostro paese, ma anche altri popoli in altri paesi gridano aiuto. Tanti Riccardo, grandi e piccoli, ci minacciano. E noi porteremo la pace dappertutto. Con una mano forte, e allo stesso tempo delicata. Così guariremo le ferite del mondo. Dio dica amen e torni a vivere la pace». Suggerisce Székely nelle sue note di regia: «…Si tratta di una parabola. Un esempio. Uno specchio insanguinato, una preghiera oscura con la speranza di un mondo migliore».
La banalità del male, la brama di potere, la vendetta per una deformità di nascita, hanno la voce e la presenza di un superbo Paolo Pierobon. È un ruolo bisognoso soprattutto di fiato lungo, che Shakespeare concepì deliberatamente per un protagonista straripante, dotato di un fascino perverso e irresistibile di cui il sinistro umorismo è solo un aspetto del cinico manipolatore. C’è tutto questo e molta ironia nell’interpretazione di Pierobon. Il pubblico ride spesso, e l’attore, ammiccando, cerca di sedurlo instaurando con esso la confidenza necessaria per renderlo suo complice. Attorno a lui un cast d’eccezione: Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli, Marta Pizzigallo, Francesco Bolo Rossini, Stefano Guerrieri, Manuela Kustermann, Matteo Alì, Lisa Lendaro, Nicola Lorusso, Alberto Boubakar Malanchino, Jacopo Venturiero.
Prodotto da Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale, e Teatro Stabile di Bolzano, lo spettacolo, dopo il debutto al Teatro Carignano di Torino, ha iniziato una tournée che ancora prosegue al Teatro Verdi di Padova, dal 10 al 14 maggio; al Teatro Quirino di Roma, dal 16 al 21 maggio.
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