Riccardo e l’estraneità
Non può certo passare sotto silenzio l’orrendo gesto omicida di Riccardo, in un paesino della provincia di Milano (Paderno Dugnano), sui cui dettagli concreti molto è stato già detto e che qui peraltro non destano alcun interesse costruttivo… Ciò che invece merita dedurre ad oggetto della comune attenzione e riflessione è quel tremendo senso di “non appartenenza”, meglio di “estraneità” , come il protagonista stesso della tragica vicenda ha lasciato intendere e di cui sembrava essere vittima.
Ma “estraneità” da cosa? Certamente dalla famiglia — definita da tutti “normale” e non segnata da alcuna manifestazione di parossismo… —, ma anche dalla società stessa, viene da pensare: Riccardo si considerava “fuori” — e isolato — anche se militava in una squadra di pallavolo, frequentava il quarto liceo scientifico — pare, con inclinazione naturale verso la materia della matematica —, faceva parte dei tradizionali gruppi di “amici” della sua stessa età e con i medesimi interessi, pare anche che avesse un quoziente di intelligenza forse superiore alla media, ecc…, ma allora?
L’aspetto più terrificante è proprio l’assenza di un correlato logico tra il gesto omicida e la situazione esistenziale — con la sua facciata di “normalità” — in cui Riccardo era calato: almeno in apparenza… Questo senso di “estraneazione” — addotto a sfondo motivazionale della tragedia consumata — sembrerebbe troppo poco per giustificare una sì grande efferatezza, eppure è da pensare che siffatto “senso” possa essere — specie tra le giovani generazioni — più diffuso di quanto non si pensi.
È uno stato soggettivo che – come spiegava la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, già membro del Comitato Onu sui diritti del fanciullo — può materializzarsi in una sorta di “buco nero”, ove non si sa, non è dato sapere quanta energia, soprattutto negativa, e di che intensità possa essere immagazzinata.
Quante situazioni, quanti eventi rituali, magari in perfetta buona fede, si sono prodotti nella vita di Riccardo, già dal suo concepimento, e poi alla nascita e poi via via nella fasi della sua crescita, che abbiano ingigantito e appesantito questo “buco nero”? E di che spessore, di che profondità, di che grado di sensibilità questi eventi siano stati….? Anche questo non è dato saperlo…
Già, perché il profilo più assurdo di queste orrende vicende è proprio il distacco tra i modelli di vita “per bene”, ispirata a valori importanti — o ritenuti tali — della vita e poi lo svolgimento, l’articolarsi “reale” della esistenza di ognuno, specie di coloro — i giovani — che spesso sono messi “fuori” da quegli stessi modelli, pur additati e sciorinati da chi immagina di vederli attuati o magari solo di considerarli attuabili, senza concretizzarne alcuno.
L’estraneità più devastante — dal cui giogo banalmente Riccardo pensava di sottrarsi estinguendo tutta la sua famiglia e gli affetti (che dovrebbero essere) più cari — è proprio da se stesso: se non sono “nulla” per quella entità sociale di cui dovrei far parte, perché mai dovrei sentirmi colpevole di distruggerla? Al contrario, potrei pensare di essere un “soggiogato”, e che l’unica via d’uscita da questo stato di isolamento “da me non voluto” sia quella di “far deflagrare” questa nullità tramutandola in qualcosa di “travolgente” e sensazionale… solo facendo rumore, questo silenzio coatto potrebbe essere disintegrato, proprio come le vite dei suoi più cari familiari sono state disintegrate dalla energia negativa — a Riccardo stesso nascosta: «Non pensavo di arrivare a tanto», ha confessato — accumulata in quell’ignoto “buco nero” dentro cui tanta parte della sua personalità si annida(va)…
Resta sullo sfondo di questa tristissima vicenda un silenzio plumbeo: e nello stesso tempo ahimè anche una certezza… Non è possibile costruire alcun senso identitario in chi si sente o è posto “fuori” da ogni relazione vera, reale: non basta l’“appartenenza”, non basta la sola e pura “gestione” di fatti e la tenuta di comportamenti che non siano effettivamente “inclusive” delle persone nel loro più vero e profondo essere e sentire. Non si può correre sempre in avanti senza fermarsi a verificare se i tempi e le situazioni di vita reale di chi condivide o intercetta il nostro “andare” siano proprio quelli giusti ed appropriati, se siano in grado di costruire quel sottile ma necessario legame tra persone che travalichi i ruoli, le forme, talvolta gli stessi principi astratti e disancorati dalla realtà — a volte più sofferta e nascosta, e forse proprio per questo — più vera in cui si svolge la vita di ognuno di noi: famiglia e società, sotto questo profilo, senza distinzione, sono sullo stesso medesimo piano.
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