Riccardo e l’estraneità

Dopo i fatti di cronaca avvenuti nel comune milanese di Paderno Dugnano, dove un 17enne ha ucciso tutte le persone del suo nucleo familiare, pubblichiamo una lettera arrivata in redazione che approfondisce sul disagio emotivo e il senso di estraneazione e solitudine
Il pellegrinaggio dei curiosi davanti l'entrata del comprensorio di villette dove è avvenuta la strage di famiglia, Paderno Dugnano, 02 settembre 2024. Foto: SERGIO PONTORIERO/ANSA

Non può certo passare sotto silenzio l’orrendo gesto omicida di Riccardo, in un paesino della provincia di Milano (Paderno Dugnano), sui cui dettagli concreti molto è stato già detto e che qui peraltro non destano alcun interesse costruttivo… Ciò che invece merita dedurre ad oggetto della comune attenzione e riflessione è quel tremendo senso di “non appartenenza”, meglio di “estraneità” , come il protagonista stesso della tragica vicenda ha lasciato intendere e di cui sembrava essere vittima.

Ma “estraneità” da cosa? Certamente dalla famiglia — definita da tutti “normale” e non segnata da alcuna manifestazione di parossismo… —, ma anche dalla società stessa, viene da pensare: Riccardo si considerava “fuori” — e isolato — anche se militava in una squadra di pallavolo, frequentava il quarto liceo scientifico — pare, con inclinazione naturale verso la materia della matematica —, faceva parte dei tradizionali gruppi di “amici” della sua stessa età e con i medesimi interessi, pare anche che avesse un quoziente di intelligenza forse superiore alla media, ecc…, ma allora?

L’aspetto più terrificante è proprio l’assenza di un correlato logico tra il gesto omicida e la situazione esistenziale — con la sua facciata di “normalità” — in cui Riccardo era calato: almeno in apparenza… Questo senso di “estraneazione” — addotto a sfondo motivazionale della tragedia consumata — sembrerebbe troppo poco per giustificare una sì grande efferatezza, eppure è da pensare che siffatto “senso” possa essere — specie tra le giovani generazioni — più diffuso di quanto non si pensi.

È uno stato soggettivo che – come spiegava la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, già membro del Comitato Onu sui diritti del fanciullo — può materializzarsi in una sorta di “buco nero”, ove non si sa, non è dato sapere quanta energia, soprattutto negativa, e di che intensità possa essere immagazzinata.

Quante situazioni, quanti eventi rituali, magari in perfetta buona fede, si sono prodotti nella vita di Riccardo, già dal suo concepimento, e poi alla nascita e poi via via nella fasi della sua crescita, che abbiano ingigantito e appesantito questo “buco nero”? E di che spessore, di che profondità, di che grado di sensibilità questi eventi siano stati….? Anche questo non è dato saperlo…

Già, perché il profilo più assurdo di queste orrende vicende è proprio il distacco tra i modelli di vita “per bene”, ispirata a valori importanti — o ritenuti tali — della vita e poi lo svolgimento, l’articolarsi “reale” della esistenza di ognuno, specie di coloro — i giovani — che spesso sono messi “fuori” da quegli stessi modelli, pur additati e sciorinati da chi immagina di vederli attuati o magari solo di considerarli attuabili, senza concretizzarne alcuno.

L’estraneità più devastante — dal cui giogo banalmente Riccardo pensava di sottrarsi estinguendo tutta la sua famiglia e gli affetti (che dovrebbero essere) più cari — è proprio da se stesso: se non sono “nulla” per quella entità sociale di cui dovrei far parte, perché mai dovrei sentirmi colpevole di distruggerla? Al contrario, potrei pensare di essere un “soggiogato”, e che l’unica via d’uscita da questo stato di isolamento “da me non voluto” sia quella di “far deflagrare” questa nullità tramutandola in qualcosa di “travolgente” e sensazionale… solo facendo rumore, questo silenzio coatto potrebbe essere disintegrato, proprio come le vite dei suoi più cari familiari sono state disintegrate dalla energia negativa — a Riccardo stesso nascosta: «Non pensavo di arrivare a tanto», ha confessato — accumulata in quell’ignoto “buco nero” dentro cui tanta parte della sua personalità si annida(va)…

Resta sullo sfondo di questa tristissima vicenda un silenzio plumbeo: e nello stesso tempo ahimè anche una certezza… Non è possibile costruire alcun senso identitario in chi si sente o è posto “fuori” da ogni relazione vera, reale: non basta l’“appartenenza”, non basta la sola e pura “gestione” di fatti e la tenuta di comportamenti che non siano effettivamente “inclusive” delle persone nel loro più vero e profondo essere e sentire. Non si può correre sempre in avanti senza fermarsi a verificare se i tempi e le situazioni di vita reale di chi condivide o intercetta il nostro “andare” siano proprio quelli giusti ed appropriati, se siano in grado di costruire quel sottile ma necessario legame tra persone che travalichi i ruoli, le forme, talvolta gli stessi principi astratti e disancorati dalla realtà — a volte più sofferta e nascosta, e forse proprio per questo — più vera in cui si svolge la vita di ognuno di noi: famiglia e società, sotto questo profilo, senza distinzione, sono sullo stesso medesimo piano.

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