Ricami di Spagna

Dietro al successo spagnolo un calcio bello ed efficace
Esultanza della squadra spagnola

Il bello a braccetto col buono: è qui la chiave del successo della Spagna al Mondiale sudafricano. Nella notte di Johannesburg, le furie rosse sono finalmente riuscite, dopo decenni di attesa, a mettere a frutto il lavoro di una scuola di pensiero calcistico. Contro la concretezza ed il contropiede degli arancioni d’Olanda gli spagnoli hanno vinto opponendo tecnica e possesso palla fino all’armonia.

 

L’Olanda era arrivata in Africa dopo 2 anni senza sconfitte, alla finale dopo 14 vittorie di fila fra qualificazione e fase finale: un periodo così lungo di imbattibilità non si può certo attribuire al caso. Eppure alla vigilia, a Johannesburg, si vendevano solo sciarpe e bandiere spagnole. Un presagio? Contro coloro che, a detta del tecnico olandese “giocano il miglior calcio del mondo”, gli arancioni sapevano di poter opporre rapidità d’esecuzione e contropiede.

 

Una nuvola minacciosa, a dire il vero, s’era vista all’orizzonte: alla finale l’Olanda si presentava come la squadra più fallosa del mondiale (98 punizioni contro, 15 cartellini gialli), un intercalare non proprio benaugurante per presentarsi al cospetto della Spagna che con le sue fitte, ed a volte estenuanti ragnatele di passaggi induce facilmente a perdere la pazienza. Le nove ammonizioni e l’espulsione rimediate nella finale hanno rappresentato il lato oscuro di un calcio pratico fino all’esasperazione, teso al sodo, al successo, senza troppo andare per il sottile.

 

Contro un calcio virile, pratico ed essenziale, hanno prevalso ordito e trama, tessitura fine, ricamo sottile. Il rischio mostrato dagli iberici nelle settimane sudafricane era quello di saper costruire tanto e concludere poco. Che a portare la coppa in Spagna non sia stato un goal dei suoi attaccanti, ma del suo folletto, il centrocampista Iniesta, profeta del passaggio corto, a pochi minuti dalla fine dei supplementari, non fa che confermarlo. Sfuggendo al rischio di un calcio barocco, fine a se stesso, i ragazzi iberici hanno saputo mettere a frutto un successo preparato, voluto, cercato ostinatamente per anni.

 

Fin dalla cantera, il vivaio, quel benedetto settore giovanile che in Italia non sembra importare a nessuno, e che in Spagna mostra oggi nel massimo splendore i suoi frutti. Con Iniesta e compagni vince un progetto da accademia del calcio che merita il trenta con lode: quei vivai in cui si accolgono ragazzi di una decina d’anni, praticamente bambini, li educano prima che allenarli, fino a farli diventare uomini e, se il talento lo permette, campioni.

 

Alla fine, il calcio europeo si è ripreso per intero i tre posti sul podio dopo che tutto, dall’inizio fino alla volata finale, faceva ipotizzare un trionfo sudamericano con quattro squadre su otto qualificate per la prima volta ai quarti. Accanto a Spagna ed Olanda, la giovane Germania multietnica: una squadra imberbe, ma non sprovveduta, sulla quale c’è da lavorare, ma dove la materia prima non fa difetto. Il piccolo schioppettate Uruguay mastica amaro con il suo quarto posto: si consoli col fatto di aver fatto meglio di due colossi del pallone, Brasile ed Argentina, e di avere talenti interessanti e promettenti: Forlan Suarez, Cavani, Lugano e alcuni altri.

 

La finale ha visto brillare alcune perle: il saluto fiero e sorridente dal centro dello stadio di Nelson Mandela, un uomo davvero ancora “in piedi”, nonostante l’età e la carrozzina; la dedica di Iniesta, dopo il goal, a Dani Jarque, amico e compagno nell’under 21, scomparso improvvisamente per infarto un anno fa; la promessa di Vicente Del Bosque, allenatore della Spagna vincitrice, uomo esperto, ma spesso incompreso, di far sfilare con lui in trionfo a Madrid il filglio Down di 15 anni.  

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