Riarmo e sicurezza comune, intervista a Paolo Pombeni

Dialogo con il noto politologo, direttore della rivista culturale Il Mulino, a proposito del dilemma tra guerra, pace e le scelte delle politiche di riarmo in Europa di fronte all’imprevedibilità di Trump. I margini possibili per riprendere la tessitura degli accordi di Helsinki e l’attualità della figura di Aldo Moro
Ursula von der Leyen con Emmanuel Macron (EPA/OLIVIER HOSLET / POOL

La proposta del piano di riarmo europeo ha il merito di suscitare un dibattito vero su una questione rimossa per decenni, salvo poi presentarsi in uno scenario che può sfociare nel panico. La manifestazione pro Europa del 15 marzo a Roma ha messo insieme sigle con posizioni molto differenti, ma il tempo delle scelte è sempre più vicino rivelando valutazioni opposte all’interno di ogni ambiente, anche di estrazione cattolica. Colpisce l’attacco di Antonio Polito sul Corriere della Sera contro il presidente della fraternità di Comunione e Liberazione, Davide Prosperi, accusato di neutralismo. Sembra di rivivere il clima ante prima guerra mondiale.

Non si può dire che Città Nuova si sia fatta trovare impreparata su questo fronte, dato che di “corsa al riarmo” e di “politica di pace” ne parliamo dai tempi in cui il tema appariva, in maniera miope, di nicchia. Per stimolare un dibattito a 360 gradi cerchiamo di cogliere pareri di diversa estrazione. Tra questi il professor Paolo Pombeni, politologo e storico tra i più autorevoli, direttore della rivista Il Mulino. Tra le opere più recenti una monumentale Storia della Democrazia Cristiana dal 1943 al 1993, di cui è coautore assieme ad altri studiosi di diversa scuola e impostazione.

Non potevamo che iniziare, nella nostra intervista, con un riferimento storico che parte dal primo dopoguerra in Italia.

 Come si legge oggi l’inclusione del disarmo universale nel programma del partito popolare del 1919 da parte di Sturzo che aveva espresso, in un primo tempo, una posizione interventista?
Nelle prese di posizione di un cristiano, bisogna sempre distinguere fra la tensione al “venga il Tuo regno” e la partecipazione al mondo in cui vive, in cui la redenzione non è ancora compiutamente avvenuta per cui ci troviamo sotto il regno del “peccato” (che non va inteso solo come colpa, ma assai più come limite dovuto all’uscita dell’uomo dal paradiso terrestre). Per questo bisogna essere molto in tensione quando ci si confronta col fenomeno della guerra. Da un lato c’è il dovere di battersi per essere portatori di pace, per realizzare le condizioni perché ci sia la pace, dall’altro non si può fingere che non esista anche il problema della difesa dal sopruso, della tutela della giustizia che non esclude l’impiego della forza per contenere chi vuole stravolgere gli equilibri che fondano la pace. È un atteggiamento molto problematico, che mette in tensione le coscienze, perché le pone di fronte all’eterno dilemma per ogni credente fra l’aspirazione ad accelerare la venuta di un mondo nuovo, e la sofferta partecipazione alla “miseria” del mondo in cui vive.

Questa distinzione, a suo parere, fonda la necessità di sostenere il piano di riarmo europeo? Come può realizzarsi senza una politica estera comune e quindi una difesa comune? Non rischia di creare conflitto tra i Paesi che si riarmeranno per proprio conto come sta facendo la Germania dove cresce l’estrema destra?
Il piano di riarmo europeo, attualmente più un “titolo” e un abstract che un piano vero e proprio, si presenta semplicemente come una esigenza basilare: nel momento in cui si assiste alla ripresa di imperialismi espansivi, per loro natura destabilizzanti per gli equilibri geopolitici, l’unico modo per provare a contenere questi fenomeni è rendere evidente come la loro aggressione alla pace comporterà per essi dei “costi”. Significa che non ci si arma per aggredire qualcuno, ma per evitare che degli aggressori abbiano campo libero. I conflitti armati rimangono un male, ma, al contrario di quel che talora si pensa, sono un male che non si può cancellare.

Una politica europea di difesa comune è in questo momento qualcosa da inventare da zero. La UE non ha la struttura istituzionale per gestirla, ma non ha neppure una cultura diffusa che renda accettabile alle opinioni pubbliche dei diversi paesi quel salto di qualità. La creazione di una politica estera unitaria, di un comando unico delle forze armate, passa per una nuova stesura dei trattati istitutivi e questi devono poi essere approvati da singoli parlamenti nazionali. Basta ricordare come è andata a finire con la stesura della cosiddetta Costituzione Europea per capire quanto l’impresa sia ardua.

L’idea che emerge è quella di partire con alcuni volenterosi..
La creazione di una cooperazione rafforzata fra alcuni stati che sviluppano le proprie potenzialità militari con una gestione comune della politica di difesa (non solo armamenti, ma sistemi di intelligence, di comunicazione e digitali, ecc.) è possibile, perché almeno parzialmente è già stata fatta in ambito Nato. I rischi che incrementi nelle politiche di riarmo possano incentivare sviluppo di forze antidemocratiche e sovraniste ci sono, ma possono essere controllati se si investe incrementando una coscienza civile matura, lontana dagli utopismi, perché quelli pseudo-pacifisti sono ottimi volani per quelli militaristi. Se si abitua la gente a ragionare per slogan, si cade inevitabilmente in mano alla demagogia più perfida. Se si costruiscono classi dirigenti allargate responsabili, si può avere una struttura importante di difesa, senza consegnare ai militari il controllo del potere (vedi il caso britannico).

Paradossalmente, dopo Biden, è ora l’America di Trump a volere il cessate il fuoco con la Russia accusando di trame oscure il predecessore Biden. È solo una mossa per prepararsi ad uno scontro decisivo dove i Paesi Eu dovranno farsi trovare preparati?
Trump è un politico difficile da decifrare. Vuole la pace (si fa per dire) con la Russia per mostrare al mondo la sua preminenza come risolutore dei problemi che agitano le relazioni internazionali. Al tempo stesso sembra pensare che un accordo con Putin, a cui consente di tornare a ricreare l’impero russo (che coinvolge l’Europa), permetta a lui di gestire un altro impero diverso da quello storico dell’alleanza atlantica, ragion per cui non considera più interessante l’Europa. Poi, essendo un uomo senza ragionamenti, ma solo con istinti volubili gestiti da un suo immaginario fluido, se la UE si rivelasse capace di costruirsi come una entità capace di esercitare una qualche forma di “potenza” ci farebbe i conti secondo un principio di convenienza. Al momento l’impressione è che consideri questa para-confederazione che è la UE più come un cartello economico concorrente, che non gli consente di fare affari come vorrebbe (ed è la ragione per la quale vuole disarticolare la UE), che come un soggetto politico-diplomatico con cui non può fare a meno di misurarsi.

È verosimile la strategia minacciata dagli Usa di ritirarsi dall’Europa?
Non so quanto sia verosimile che gli USA possano ritirarsi dall’Europa, ma certo hanno una forte tentazione in questo senso. Nella storia americana accanto ad un filone che considera il proprio paese come un frutto (avanzato e persino superiore) della civiltà europea, ce n’è un altro che ama vederlo come il “nuovo mondo” che deve liberarsi dai rapporti col “vecchio” che è corrotto e decadente. Questa tradizione, ben rappresentata nell’evangelismo estremista oggi in ripresa e a cui Trump dà spazio, trova indubbiamente presenza grazie alle debolezze della tradizione culturale occidentale che si è rinsecchita concentrandosi su quello che si definisce “l’individualismo di singolarità”. Essendo gli USA un paese etnicamente in trasformazione per molti filoni di immigrazione da aree diverse da quelle vagamente riferite alla cultura europea classica come è stato fino a metà del Novecento, la presa dell’antieuropeismo cresce anche a livello popolare di massa.

Non è evidente l’effetto di indurre al riarmo a favore delle grandi corporation statunitensi a cui siamo strettamente collegati?
È discutibile che la spinta al riarmo dell’Europa avvenga per stretto calcolo delle opportunità che ciò potrebbe offrire all’industria bellica americana: quella componente può esserci, ma non mi sembra determinante. Piuttosto è uno strumento per favorire la disgregazione del nostro Continente che ha una tradizione di stati con sovranismo militare molto robusta, sicché può pensare di risvegliare rivalità storiche con le politiche di riarmo (basta vedere come di fatto viene da più parte accolto il programma tedesco in questo campo).

È tramontata per sempre la prospettiva della sicurezza comune delineata con gli accordi di Helsinki del 1975 che videro il concorso importante di Aldo Moro?
La politica di sicurezza comune è una opzione che rimane sul tavolo, solo che in questo momento non c’è più il clima politico per tanti aspetti positivo che esisteva nel 1975. Allora avevamo ancora una cultura che pensava possibile la convivenza perché credeva nella disponibilità di risorse per lo sviluppo che potevano accontentare quasi tutti. Anzi si pensava che deviare da quella prospettiva portasse i singoli stati a mettere in forse proprio le loro possibilità di sviluppo, che avrebbero tratto forza dall’allargamento dei partecipanti allo sviluppo (si ricordi come è stata trattata la Cina post maoista…).

Oggi, purtroppo, domina una prospettiva catastrofista: il sentimento diffuso è che l’ampliamento dello sviluppo sia una prospettiva “suicida” per il nostro pianeta (emblematico il discorso di certo ambientalismo che ha grande audience); si crede che arriverà una qualche apocalisse perché si sono destabilizzati tutti gli equilibri con le loro più o meno tradizionali gerarchie; diventa dominante la prospettiva della salvezza come chiusura di ciascuno in una sorta di cittadella murata a protezione di quelle che si credono essere le energie disponibili che non si vogliono condividere.

 Come si può uscire, a suo parere, da questo scenario che appare senza speranza?
Credo che solo sconfiggendo questa nuova “rivoluzione culturale”, che si discosta dalla fiducia nella storia come marcia verso un esito benevolo (verso la Salvezza, direbbe un credente), sarà possibile riprendere il lavoro per costruire politiche di sicurezza comune.

Aldo Moro da questo punto di vista è una figura tragica nel senso tecnico del termine: di fronte alla crisi del sistema europeo fra fine anni Sessanta e metà anni Settanta intuì che si doveva provare a riprendere le fila del discorso che fra gli anni Quaranta e agli anni Cinquanta aveva, pur con molte asperità e contraddizioni, reso possibile la “ricostruzione”. Pagò con una forma di martirio inflittogli dalle forze oscure che volevano arrivare alla pseudo apocalisse per rimettere tutto in discussione.

Sulla questione di ReArm Eu vedi anche il focus dedicato e gli articoli più recenti

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