Riarmare gli Stati europei?

Un Consiglio europeo straordinario ha riunito i leader dell’Unione europea (Ue) per discutere della proposta della Commissione europea di un piano che prevede l’aumento delle spese per la difesa da parte degli Stati membri e dell’Ue, chiamato ReArm Europe (Riarmare l’Europa). Sebbene il nome evochi scenari foschi e, diciamoci la verità, di armi ci siamo ormai disabituati a parlare in Europa nel secondo dopoguerra, difesa vuol dire (anche) armi. Del resto, secondo le conclusioni del vertice, «l’Europa deve diventare più sovrana, più responsabile della propria difesa e meglio attrezzata per agire e affrontare autonomamente le sfide e le minacce immediate e future».
D’altronde, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha parlato con una certa nonchalance di riarmo. Forse perché prima di approdare alla guida dell’esecutivo di Bruxelles è stata ministro della difesa della Germania. Il suo piano di riarmo non è altro che una serie di proposte per utilizzare tutte le leve finanziarie a disposizione, per aiutare gli Stati membri ad aumentare rapidamente e in modo significativo le spese per la difesa. Arrivando al vertice, von der Leyen aveva dichiarato che «l’Europa si trova di fronte a un pericolo chiaro e presente, e quindi deve essere in grado di proteggersi e difendersi, così come dobbiamo mettere l’Ucraina in grado di proteggersi e di spingere per una pace duratura e giusta».
Nello specifico, la prima parte di ReArm Europe mira a facilitare i finanziamenti pubblici nella difesa a livello nazionale. Gli Stati membri potranno attivare la clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità e crescita, consentendo loro di aumentare significativamente le loro spese per la difesa senza innescare la procedura per i disavanzi eccessivi. Secondo i calcoli della Commissione europea, se gli Stati membri aumentassero le loro spese per la difesa dell’1,5% del Prodotto interno lordo (Pil) in media, ciò potrebbe creare uno spazio fiscale di circa 650 miliardi di euro in un periodo di quattro anni. Intendiamoci, sarebbe denaro che gli Stati membri dovrebbero procurarsi con l’emissione di titoli di Stato, quindi altro debito.
La seconda proposta è quella di attivare un nuovo strumento finanziario per fornire 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per investimenti nella difesa, magari spingendoli a fare programmi militari comuni nonché a mettere in comune la domanda e ad acquistare insieme. Questo approccio di approvvigionamento congiunto ridurrà anche i costi, ridurrà la frammentazione, aumenterà l’interoperabilità e rafforzerà la nostra base industriale di difesa.
Il terzo punto è quello di utilizzare parte il bilancio dell’Ue per dirigere più fondi per gli investimenti legati alla difesa, anche proponendo ulteriori possibilità e incentivi per gli Stati membri che decideranno, se vogliono utilizzare programmi di politica di coesione, per aumentare la spesa per la difesa. Le ultime due aree d’azione mirano a mobilitare il capitale privato accelerando l’Unione di risparmio e investimenti e attraverso la Banca di investimento europea.
Questo piano rispecchia quello realizzato con la raccolta fondi per il recupero dal Covid-19 per lo strumento europeo per il supporto temporaneo per mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenza (SURE), sebbene questa volta i fondi sarebbero distribuiti come prestiti piuttosto che sovvenzioni, sulla base di piani di approvvigionamento nazionali per i prodotti di difesa i prossimi 10 anni.
I leader europei approcciano con sfumature diverse la questione del riarmo, pardon, della difesa, dell’Europa. Se tutti i 27 Stati membri hanno approvato il piano ReArm Europe, così non è stato per la posizione sull’Ucraina, dove l’Ungheria si è espressa negativamente ad una dichiarazione dell’Ue che respingeva la posizione negoziale di Donald Trump favorevole alla Russia.
Il presidente francese Emmanuel Macron si è detto pronto a discutere della possibilità di offrire l’ombrello nucleare francese all’Europa, mentre proprio da Vladimir Putin è stato accusato di voler tornare ai tempi di Napoleone, dimenticando come è finita. Paragonato agli altri arsenali in gioco, verrebbe comunque da dire che più che un ombrello è un ombrellino: la Francia possiede 290 testate nucleari, il Regno Unito 225, gli Stati Uniti 5.550 e la Russia 6.257.
Ci sono leader come il primo ministro della Danimarca, Mette Frederiksen, che ha detto che bisogna spendere, spendere, spendere in difesa e deterrenza. Più prudente Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri italiano, che ha osservato come non sia appropriato il nome del piano ReArm Europe; sul quale però l’Italia non dirotterà i fondi di coesione, che servono a migliorare le condizioni delle regioni più svantaggiate. Eppure, secondo i primi calcoli, l’Italia dovrà spendere circa 35 miliardi di euro nei prossimi anni per raggiungere il 2% di spese militari in rapporto al Pil, come stabilito nel 2014 tra i partner della NATO. Inoltre, Meloni ha ricordato che le garanzie di sicurezza dell’Europa sono nell’alveo dell’Alleanza Atlantica; e ribadito che l’Italia non invierà truppe in Ucraina, se non nell’ambito di una eventuale iniziativa sotto l’egida delle Nazioni Unite.
La Turchia invece, membro della NATO e (ormai eterno) paese candidato all’Ue dal 1999, ha dichiarato di essere pronta a schierare le sue truppe in Ucraina. D’altronde, il presidente turco Recep Erdogan ha l’ambizione di ricostruire l’area d’influenza dell’Impero Ottomano e, forse, andare anche oltre.
Molti detrattori del piano hanno subito citato l’economista Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’università Cattolica di Milano, dove insegna macroeconomia fiscale; secondo cui l’Ue spende già circa il 60% in più della Russia in armamenti ogni anno. Il problema, però, è che queste spese vengono fatte dai 27 Stati membri in modo disordinato, senza alcun coordinamento che potrebbe rendere più efficienti le forze armate nella loro organizzazione e negli investimenti.
Colpisce anche il fatto che, se per le spese militari si potrà andare in deroga alle strette regole del patto di stabilità e crescita, questo non è possibile per le spese destinate alla sanità, all’istruzione, all’inclusione. Inoltre, alcuni critici stigmatizzano il fatto che i Parlamenti nazionali possano essere esautorati dalle prese di decisione a livello europeo sugli armamenti.
È forse utile citare anche Ciro Sbailò, professore di diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma e direttore del Centro di ricerca per la geopolitica e il diritto comparato (Geodi), che nel suo libro Europe’s Call to Arms (l’Europa chiama alle armi), fin dal 2023 osservava che la dottrina costituzionale europea dovrebbe concentrarsi principalmente sulle condizioni concrete per la protezione degli interessi e dei valori europei, a partire dalla difesa militare dell’Europa all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Quel che è certo è che avere un esercito europeo sarebbe cosa buona e giusta, ma prima sarebbe necessario avere un’Europa veramente politica, che possa parlare con una sola voce sulle questioni internazionali. Un’Europa autorevole, che possa confrontarsi meglio con gli altri grandi player mondiali: Stati Uniti, Russia, Cina.
È indispensabile citare però anche Papa Francesco, che nel 2023, in occasione dei 60 anni della Pacem in Terris, Enciclica di Giovanni XXIII sulla pace, aveva già criticato la nuova corsa agli armamenti, osservando che «l’aumento di risorse economiche per gli armamenti è ritornato ad essere strumento delle relazioni tra gli Stati, mostrando che la pace è possibile e realizzabile solo se fondata su un equilibrio del loro possesso», aggiungendo che «tutto questo genera paura e terrore e rischia di travolgere la sicurezza poiché dimentica come un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che mette in moto l’apparato bellico».
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it