Riappacificarsi con la propria storia
Ciascuno di noi porta, racchiusi nella propria memoria, ricordi non piacevoli, momenti o fasi della propria vita bui, caratterizzati da eventi o stati d’animo dolorosi o disagi psicologici. Un fallimento, la delusione sperimentata per un’amicizia che si rompe all’improvviso, l’essersi sentiti inutili o invisibili per qualcuno.
Paolo ricorda che la sera quando suo padre tornava a casa era sempre stanco e nervoso. Se lui e i suoi fratelli facevano rumore, giocando o se alzavano troppo il tono della voce a cena, li guardava in modo ostile e rabbioso. Ogni tanto quello sguardo se lo sente ancora addosso. Quando ciò accade tenta di non pensarci, va sui Social e si immerge nelle vite altrui, questo lo aiuta a “staccare”. Se è solo fuma anche una sigaretta. Ha smesso di fumare da un anno, ma quando è nervoso, “fare qualche tiro” lo aiuta a calmarsi.
Quello che Paolo cerca di fare quando si sente minacciato dal dolore associato a certi ricordi è tentare una via di fuga. Si tratta di un meccanismo comune. Quando rischiamo di trovarci faccia a faccia con un’esperienza dolorosa, che riapre vecchie ferite, si innesca l’istinto di lotta o fuga. Cerchiamo di difenderci da ciò che può farci sentire fragili e indifesi. E abbiamo tanti modi diversi per farlo: bere, mangiare in eccesso, rifugiarci dentro uno schermo.
Il punto è che questi tentativi di “anestetizzarci” rispetto al dolore che proviamo, oltre ad essere, in alcuni casi, dannosi per la nostra salute o per le relazioni, non raggiungono l’obiettivo di proteggerci dal dolore. Possono darci un momentaneo sollievo, possono farci distrarre, ma le emozioni e i pensieri negativi non sono spariti, e prima o poi ritorneranno a disturbarci.
Come sottolinea il ricercatore e psicoterapeuta Steven Hayes questa fuga dal “sentire” le nostre emozioni è paradossale, in quanto nega uno dei desideri fondamentali dell’essere umano, quello di fare esperienza, di provare emozioni.
Persino un neonato va alla ricerca di sensazioni, osserva, guarda, tocca, ama essere sorpreso con un gesto inatteso, ride quando il genitore sollevandolo in aria gli fa provare il brivido del volo. Il bambino è naturalmente portato verso l’esplorazione, e per farlo accetta il rischio di cadere, di farsi male.
Crescendo, la nostra mente comincia a metterci in guardia dal rischio di soffrire, e ci incoraggia ad evitare le emozioni e i ricordi spiacevoli.
Ma cosa accade quando smettiamo di essere pienamente in contatto con noi stessi e con la nostra esperienza? Senza rendercene conto possiamo diventare meno empatici e compassionevoli. Perdiamo la capacità di prenderci cura amorevolmente e con gentilezza delle parti fragili e ferite di noi stessi.
Rischiamo di diventare più distratti e meno sintonizzati con chi ci sta accanto. Facciamo fatica ad ascoltare fino in fondo quello che ci viene detto, a riconoscere e a comprendere quello che l’altro prova. Questo a lungo andare produce altra sofferenza, in noi e in chi ci circonda.
Cosa può salvarci da questo circolo vizioso? L’accettazione. La parola accettare può richiamare alla mente qualcosa di passivo come rassegnarsi o sopportare. Tuttavia, la radice latina di questa parola vuol dire ricevere, come quando riceviamo qualcosa in dono.
Steven Hayes a questo proposito afferma: «Il dono che riceviamo quando scegliamo di accettare la nostra esperienza, compreso il dolore, è la saggezza che ci rende capaci di sentire e ricordare pienamente nel momento presente, senza lasciarci catturare da una rete di pensieri negativi riguardo al passato».
Come fare in concreto a coltivare questa saggezza?
Scegliendo di non fuggire. Possiamo notare questo impulso che ci spinge alla fuga, possiamo osservarlo in modo consapevole e decidere di non seguirlo. Possiamo accettare di “sentire il dolore” che quel ricordo porta con sé, chiedendo a noi stessi: «Di cosa ho bisogno? Come posso prendermi cura di questa parte di me che sta soffrendo?».
E poi: «Che messaggio è racchiuso dentro questa esperienza dolorosa?».
Paolo ad esempio, potrebbe concedere a se stesso di entrare in contatto con la tristezza e con il sentimento di vuoto che sente ogni volta che il ricordo di suo padre riemerge nella sua memoria. Potrebbe aprirsi verso i propri bisogni inascoltati e capire come prendersene cura, avviando così un processo di crescita che gli consenta di trovare un nuovo rapporto con la propria storia.
In alcuni casi, il percorso verso l’accettazione della propria storia può essere svolto autonomamente, mentre in altri può essere importante, se non necessario, avvalersi dell’aiuto di un professionista per avviare insieme un percorso di psicoterapia.
In ogni caso, l’accettazione è un dono che possiamo fare a noi stessi. Solo dopo aver fatto la pace con i nostri sentimenti ed averli accolti in modo compassionevole, possiamo nuovamente aprirci all’esperienza, in modo pieno ed empatico.