Requiem di Verdi: gioia e dolore

Una battaglia tra uomo e Dio. Una grande esecuzione nel complesso
Santa Cecilia

Ogni volta che si rivede – perché è come rincontrare un vecchio amico –, il Requiem di Verdi è una gioia ed un dolore insieme. Gioia perché è riscoprire la bellezza, la profondità, l’universalità di una musica che conosce pochi rivali, di un cuore grandissimo che abbraccia tutta l’umanità.

 

Dolore perché questa musica così oscillante tra dubbio e speranza, così urlata e sommessa al tempo stesso, rimane un mistero. Un mistero che noi vorremmo scoprire, sezionare, indagare presuntuosamente ma che alla rimane indefinibile.

 

Deve forse aver pensato questo il direttore Manfred Honeck rileggendo l’opera verdiana del 1874, adottando pause lunghissime, introduzioni al limite dell’udibile (il silenzioso Requiem che pareva arrivare da profondità abissali), catastrofi immani – il Dies irae, il Rex tremendae maiestatis con una furia davvero apocalittica di “crescendo” e “diminuendo” – e poi impalpabili dolcezze nell’Hostias e quella marcia funebre del Lacrimosa ebbra di pianto, ma non di rassegnazione.

 

È singolare che questo direttore abbia puntato a far cantare, in un’orchestrazione così massiccia e al contempo leggera, gli ottoni (per esempio nel Lacrimosa), certi accenti dell’oboe, per far risaltare quella chiarezza che è la dota precipua di Verdi.

 

Certo il mistero permane, perché dopo l’angoscioso Libera me, l’orchestra plana in maggiore in un accordo denso, dolcissimo, di apertura alla luce. A Dio? Il mistero rimane. Ma tutto il Requiem è una battaglia tra l’uomo e Dio, una immagine di un Dio michelangiolesco eppure tenero. A rivedere il volto del Cristo del Giudizio nella Sistina, terribilmente forte e adolescente, si può dire che esso venga espresso compiutamente dalla musica verdiana.

 

L’orchestra è stata perfetta nell’adeguarsi alla visione di Honeck con cascate degli archi, passione dei legni e degli ottoni ed un coro fulgente. Buono il quartetto dei solisti, in particolare le voci di Krassimira Stoyanova, soprano drammatico di forte temperamento e dell’intensa, precisa Luciana D’Intino. Buono il tenore Giorgio Berrugi cui però difetta la tendenza a cantare sempre forte (anche nell’Hostias manifesta delle incertezze…) e il basso Liang Lu bravo, ma talora dal timbro duro.

 

Grande esecuzione nel complesso. Si replica lunedì e martedi. Roma, Accademia Santa Cecilia.

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