Repubblicani all’attacco

Phil, un amico insegnante, me lo aveva detto: L’11 settembre ci ha cambiati. Molti ne parlano, molti altri no. Ma ti assicuro che tutti ci pensiamo, costantemente. È un retropensiero che ci portiamo dentro e che resta presente qualunque cosa facciamo o diciamo. È un senso di insicurezza costante. Per questo quando il governo, lo scorso primo agosto, lanciò un nuovo allarme, in seguito agli interrogatori di alcuni terroristi arrestati in Pakistan, e il livello di pericolo salì al penultimo stadio, quello arancione, aumentò l’inquietudine, ma nessuno si stupì. Gli edifici che ospitano i bersagli esplicitamente indicati dai terroristi vennero isolati, e Manhattan apparve in stato d’assedio. Sulla Broadway, prima dell’imbocco con Wall Street, i poliziotti rimandavano indietro camion e furgoni, nel timore di attentati all’esplosivo, dopo averli controllati con i cani. Eppure, proprio lungo il marciapiede transennato, centinaia di persone facevano la fila per incontrare l’attrice Pamela Anderson al Music Café. E non è solo curiosità quella che infittisce ogni giorno i turisti, in particolare statunitensi, all’ingresso della Borsa: è la volontà di ribadire che non intendono venir meno al loro stile di vita: È proprio quello che i terroristi vorrebbero farci fare. Questo allarme, acceso subito dopo la Convenzione Democratica di Boston, ha suscitato molte polemiche: i dati relativi ai bersagli trovati presso i terroristi arrestati, risalivano a prima degli attentati del settembre 2001, e il dubbio sulla necessità di scatenare un tale putiferio era emerso chiaramente. Gli stessi giornali hanno trattato l’avvenimento in maniera molto diversa: prime pagine sui quotidiani di New York, pagine interne nei fogli di molte altre città. Giusto o sbagliato che fosse, confermare agli statunitensi che l’America è una nazione in guerra ha ben preparato il clima per la Convenzione Repubblicana di New York a fine agosto, che è stata giocata prevalentemente, e aggressivamente, sulla contrapposizione fra i due candidati alla presidenza. A ricordare la guerra, per la verità, basterebbero le bare dei soldati americani, che hanno oltrepassato quota mille: e sarebbe una testimonianza della guerra che indurrebbe a riflessioni poco favorevoli nei confronti di colui che l’ha decisa. Ma i cittadini degli Stati Uniti, per decisione presidenziale, non le possono vedere. E l’essere in guerra, nonostante le perduranti difficoltà in Iraq, viene ricordato alla Convention con i toni trionfalistici dei vincitori. Il discorso più efficace della Convenzione Repubblicana, da questo punto di vista, è stato certamente quello di Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York, che ha esaltato le capacità di comando del presidente Bush, denigrando il suo avversario, dipinto come una banderuola che cambia continuamente opinione. Da Giuliani, al vicepresidente Dick Cheney, allo stesso presidente Bush, il periodo successivo agli attentati è stato descritto come un susseguirsi di vittorie: la sconfitta dei talebani in Afghanistan, il rovesciamento del regime dit- tatoriale di Saddam in Iraq, la decisione della Libia di interrompere i propri programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. Tutto questo, come se il rapporto della Commissione del Congresso sugli attentati, che ha dimostrato la sostanziale inesistenza dei motivi addotti per scatenare la guerra irachena, non fosse stato pubblicato. La Convenzione di New York ha esibito, su questo punto, la compattezza dell’ideologia neoconservatrice che domina la presidenza, ed è riuscita, almeno per quanto riguarda la questione della sicurezza, a compattare la grande maggioranza del popolo repubblicano attorno alla linea dei neocons. È una linea di approvazione della guerra irachena che ha un riscontro effettivo, di carattere anche emotivo e istintivo, in una parte consistente – anche se, attualmente, minoritaria – dell’opinione pubblica. L’avevo costatato, alla vigilia della Convenzione Repubblicana, conversando con i frequentatori di Bryant Park: fra la 42ª e la Public Library, è un bellissimo spazio verde dove si va per riposare gli occhi tra un volume e l’altro; i bambini salgono sulla giostra, le famiglie prendono il sole, e c’è sempre qualcuno col computer acceso sui tavolini verdi. Che cosa è veramente cambiato nella testa e nel cuore della gente dopo gli attentati? Non è cambiato assolutamente niente: sigaro al lato della bocca, giornale in mano, il bianco settantenne seduto a un tavolino sembra uscito da un film di John Wayne e dà poca corda a chi gli pone domande che, evidentemente, lo scottano. Prevale, in lui, una reazione di difesa: l’America è forte come prima e non ha bisogno di dare spiegazioni a nessuno. Ma a Bryant Park non ci sono solo cow boys: Justin e Hitesh hanno meno di trent’anni, vengono dall’India e sono ben inseriti in una banca. Dicono che non è cambiato lo stile di vita né gli affari: per quanto riguarda il loro punto di osservazione, il denaro circola come prima; c’è più insicu- rezza, questo sì, soprattutto quando si passa vicino a qualche bersaglio. E la campagna elettorale? I repubblicani tengono l’attenzione sulle questioni internazionali e sulla sicurezza – risponde Justin -, ma la gente che io conosco vorrebbe sentire qualcosa sulle questioni sociali. E i repubblicani, che hanno percepito questa esigenza diffusa nella società americana, li hanno subito accontentati: il secondo grande tema della Convenzione è stato appunto il rilancio di quel conservatorismo compassionevole che aveva caratterizzato la prima campagna presidenziale di Bush. Non bisogna infatti dimenticare che una cosa è l’impostazione ideologica neoconservatrice data dal presidente alla strategia della sicurezza nazionale, altra cosa è la ricca tradizione di pensiero e di governo repubblicana che, con piena legittimità, si alterna a quella democratica nella guida del Paese. Bush ha già dato un sostanziale aiuto agli anziani per quanto riguarda l’acquisto dei medicinali, e si è impegnato, nel suo discorso alla Convention, ad aprire nuovi ambulatori presso le comunità più povere. Ha annunciato, in sostanza, e in contraddizione col suo slogan di ridurre le spese del governo federale, una strategia assistenziale che assegna allo stato un ruolo forte nell’intervento compassionevole. Le promesse di Bush riguardo alle politiche sociali – come, del resto, quelle di Kerry – comportano una enorme previsione di spesa per il prossimo quadriennio; ma a differenza di Kerry, se le promesse di Bush si aggiungono alle spese per il mantenimento dell’esercito in guerra e all’annuncio di una riduzione permanente delle tasse per i redditi più alti, diventano evidenti le perplessità di non pochi economisti: difficile tenere insieme tutto ciò che il presidente ha messo in programma, se davvero cercherà di attuarlo nei prossimi quattro anni. Tanto più che, all’inizio del suo mandato, Bush poteva contare sull’enorme attivo di bilancio lasciatogli da Clinton: il presidente democratico, sia detto fra parentesi, è considerato, per l’economia, fra i migliori presidenti della storia statunitense. Bush, in breve tempo, ha rovesciato la situazione, trasformando il debito pubblico in una voragine. La crescita del debito pubblico, e il preannuncio del suo aumento legato alle politiche sociali, l’appesantimento dello Stato, che ha aumentato di molto i propri dipendenti in conseguenza all’estensione degli apparati di sicurezza: sono veri e propri paradossi che mettono le politiche di Bush in aperto contrasto con la tradizione repubblicana. Unite alle perplessità sulla gestione della guerra irachena che, pure, sono presenti tra gli stessi repubblicani – anche se questo non è, per loro, il momento giusto per dirlo apertamente -, spiegano come all’interno del partito ci sia chi si sta già preparando al dopo Bush, ad una rivincita dell’area tradizionale e non neoconservatrice, che partirà all’assalto già a novembre, se il presidente in carica dovesse perdere. Più coerente, invece, l’altro aspetto delle politiche sociali di Bush, basato sull’idea di una società di proprietari rivolta, prevalentemente, al ceto medio che, sotto la sua presidenza, ha perso ricchezza e posti di lavoro. Bush ha annunciato un piano di incentivi e agevolazioni per tutti coloro che vorranno costruirsi una personale assicurazione sanitaria e pensionistica, o cercheranno di com- prarsi una casa: l’idea è di rispondere alla comprendibile esigenza di sicurezza, al desiderio di essere padroni della propria esistenza, assegnando allo stato il ruolo di sostenitore delle scelte individuali. Certamente queste politiche rivolte a chi sta già abbastanza bene da poter aspirare ad un miglioramento, non potranno ridurre sostanzialmente il numero dei 45 milioni di cittadini che non possono permettersi un’assicurazione sanitaria privata, ma è una politica che ha gli aspetti positivi (non solo per le compagnie di assicurazione) e i limiti tipici della prospettiva liberale. Ed è su questi temi che bisognerebbe misurarsi in una campagna elettorale, tra repubblicani e democratici, senza il condizionamento determinante della strategia di guerra di Bush: una strategia che – almeno dall’Iraq in poi – non avrebbe mai dovuto essere messa in atto. Ma c’è un terzo aspetto della Convention Repubblicana che ha avuto un peso decisivo: il ruolo di Arnold Schwarzenegger. Quando il divo di Hollywood fu eletto governatore della California, non mancarono le battute; in molte case, a un figlio che salutava dicendo Vado in palestra, molti padri rispondevano: Vuoi entrare in politica?. Ma Schwarzenegger va preso molto sul serio. Nel suo intervento, Governator è riuscito a fare molto più di un discorso, ha dato una testimonianza, è riuscito a materializzare davanti ai suoi ascoltatori la figura del ragazzo allampanato appena arrivato dall’Austria, senza ancora parlare l’inglese: Tutto ciò che ho, la mia carriera, il mio successo, la mia famiglia, lo devo all’America… Ai miei compagni emigranti che mi ascoltano stasera, voglio che sappiano come sono i benvenuti in questo partito. Noi repubblicani ammiriamo la vostra ambizione. Incoraggiamo i vostri sogni. Crediamo nel vostro futuro. Una cosa che ho imparato sull’America è che se voi lavorate duro e fate la vostra parte, questo paese vi è veramente aperto. Voi potete ottenere ogni cosa… L’America mi ha dato le opportunità, e i miei sogni di immigrante sono diventati veri. Voglio che altre persone ottengano le stesse possibilità, le stesse opportunità. E io credo che possono averle. Perciò io credo in questo paese, perciò credo in questo partito e perciò credo in questo presidente. Il 31 agosto, al Madison Square Garden, Schwarzenegger ha avuto la rara possibilità di interpretare la parte più importante della sua carriera raccontando, semplicemente, la sua verità, con un effetto pesantissimo in termini elettorali, perché, per tutti coloro che sbarcano negli Stati Uniti e cercano di costruirsi un’esistenza dignitosa, le sue parole sono l’unica cosa che davvero conta. In effetti, ha testimoniato il cuore del suo paese di elezione: quel sogno americano che deve, per il bene dell’umanità, poter continuare ad essere vero. Lo ha detto nel suo modo, legandolo al partito repubblicano e a Bush: metà degli statunitensi la pensa diversamente e guarda, piuttosto, alla versione democratica dello stesso sogno, quella incarnata dal giovane senatore Obama, figlio di un kenyota e di una afro-americana. Entrambi esprimono uno dei grandi motivi per i quali le elezioni Usa interessano tutti noi.

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