Repubblica Dominicana, avanti senza scossoni

Le recenti elezioni hanno confermato con un elevato sostegno il presidente Luís Abinader alla guida della Repubblica Dominicana. Le prospettive e le contraddizioni di uno dei paesi più stabili dell’America Latina e dei Caraibi.
Luis Abinader rieletto presidente della Repubblica Dominicana al primo turno. (Foto Ansa, EPA/Orlando Barria)

Con il 57,45 % dei voti, Luís Abinader è stato rieletto al primo turno alla presidenza della repubblica. Una vittoria comoda: il suo inseguitore, l’ex presidente Leonel Fernández, si è fermato al 28,85%.

Il mandato durerà fino al 2028. Alta l’astensione (45,63 %), con denunce di irregolarità nella giornata elettorale (voti e carte d’identità comprate e distribuzione di schede pre marcate col voto ad Abinader), che purtroppo non sono nuove nelle elezioni dominicane.

I promettenti risultati economici, con una proiezione di crescita del Pil che per quest’anno supera il 5%, la rapida ripresa del turismo dopo il Covid, la linea dura mantenuta verso l’immigrazione haitiana e il miglioramento nella lotta alla corruzione hanno convinto gli elettori a rinnovare la fiducia al presidente, uno dei governanti con maggiore approvazione della regione (attorno al 70%, secondo dati Cid-Gallup).

Abinader sa di dover consolidare e approfondire lo sviluppo economico avviato negli anni scorsi, puntando soprattutto a una più equa distribuzione della ricchezza, e a una maggiore incisività nel cambio promesso verso una politica totalmente pulita e al servizio della gente.

La delinquenza, l’alto costo della vita e il lavoro informale e poco retribuito sono i problemi che preoccupano i dominicani, insieme “all’invasione” dei vicini haitiani. Haiti è il caotico paese con cui la Repubblica Dominicana condivide l’isola di Hispaniola, un paese immerso in una profonda crisi di violenza, sociale e di governabilità che provoca un esodo massiccio di profughi.

Per far fronte alla paura di un “contagio” dell’inaudita crisi haitiana, e all’invasione di migliaia di persone senza lavoro e con scarse prospettive, che Abinader reputa insostenibile per il suo paese, il governo ha messo in moto una politica di espulsione dei migranti irregolari, opponendo dei “no” irremovibili alla richiesta delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie di assistere i migranti, spesso in fuga da una violenza estrema.

La Repubblica Dominicana è una delle nazioni più socio-politicamente stabili del continente. Da decenni non sperimenta rotture nella vita repubblicana e nell’ordine costituzionale, né guerre o manifestazioni violente di massa. I motivi sono vari. Per la sociologa e analista politica dominicana Rosario Espinal, anzitutto, i leader politici che hanno fatto seguito ai governi autoritari di Trujillo, dal 1962 in poi hanno organizzato e guidato formazioni politiche solide e sufficientemente serie, che, eccettuate le sacche di corruzione e alcune manovre spurie, hanno permesso un esercizio ordinato del potere e dell’alternanza dei partiti.

I movimenti sociali, poi, hanno potuto esercitare il loro ruolo di controllo, proposta e critica in un ambito pacifico. Quelli di stampo anti-sistema di sinistra sono stati repressi durante il regime Balaguer, seguito a Trujillo e con un ultimo mandato conclusosi nel 1996. E non ne sono sorti di analoghi in seguito.

Un terzo fattore determinante, segnala l’analista dominicana, è stata la massiccia migrazione verso gli Usa, sin dal 1965, che ha ridotto la pressione sociale di chi cerca all’estero migliori opportunità di vita. Ancora oggi, le rimesse di denaro dall’estero rappresentano oltre l’8% del Pil nazionale dominicano.

Espinal sottolinea l’importanza delle zone franche, create sin dagli anni ’60, in seguito a una legislazione che ha incentivato l’industria, oltre al turismo, e che hanno consolidato il settore imprenditoriale e la formazione di una classe media relativamente ampia.

La dirigenza e i quadri politici si sono assicurati la loro stabilità nel tempo anche grazie alla distribuzione di risorse pubbliche e per l’ampliamento delle élites economiche, incrementate mediante l’assegnazione di impieghi statali e contratti pubblici, e  per l’assistenza sociale. Le chiese hanno beneficiato di esenzioni e sovvenzioni, e quando hanno alzato voci critiche verso l’uno o l’altro governo, non hanno ad ogni modo promosso proteste che sovvertissero l’ordine pubblico.

In sesto luogo, anche i comandi militari sono stati coinvolti nel clientelismo e nella corruzione, assicurando la loro lealtà alle istituzioni e, benché in modo e per motivi molto discutibili, azzerando la possibilità di colpi di Stato.

Infine, i poveri e gli sfruttati, nota la sociologa, sono fondamentalmente profughi haitiani che non hanno voce, politicamente parlando, molti dei quali sono immigrati non regolarizzati, preda facile dello sfruttamento lavorativo senza poter far valere i loro diritti, anche se non manca una certa sensibilità della società civile e dei privati cittadini verso di loro.

Sia il presidente Abinader, prospero imprenditore immobiliare e turistico, così come il suo predecessore Leonel Fernández, sono esponenti di una nuova generazione di partiti politici, nati con la promessa di servire il bene comune e debellare la corruzione. Finora hanno scalzato i partiti tradizionali, dei quali non rimane che una piccola rappresentanza in Parlamento. Abinader in particolare ha incarnato uno stile sobrio di fare campagna elettorale ed ha piuttosto ignorato le provocazioni, smorzando i toni e contribuendo a mantenere fuori dai giochi la polarizzazione estrema che si riscontra ad altre latitudini.

La gente attende comunque migliori opportunità di lavoro e sviluppo. In particolare, è forte l’aspirazione a stipendi che consentano di arrivare alla fine del mese, senza dovere emigrare. Abinader e la sua forza politica lo sanno, e dovranno rimboccarsi le maniche per raggiungere l’obiettivo.

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