Repubblica Centrafricana, intervista al nunzio apostolico Santiago de Wit Guzmán
Il 30 marzo ci sarà l’insediamento ufficiale a Bangui di Faustin-Archange Touadera, rieletto per un secondo mandato alla guida della Repubblica Centrafricana. Le elezioni parlamentari e presidenziali del 27 dicembre scorso in Centrafrica hanno suscitato il timore di un ritorno alle violenze sperimentate nel 2013, in un Paese in preda alla guerra civile. Fortunatamente il peggio che si temeva non è accaduto, e l’importanza di queste elezioni è stata sottolineata più volte a livello internazionale. Di passaggio a Bangui, sono stata ricevuta dal nunzio apostolico in Centrafrica, monsignor Santiago De Wit Guzmán. L’inviato della S. Sede nel Paese ritiene che le «decisioni politiche possono essere l’inizio di un cambiamento per il bene; ricorrere a conflitti armati non può mai essere una risposta alle sfide da affrontare. La percezione che uomini forti possano portare cambiamenti duraturi per il bene comune è solo un’illusione».
Eccellenza, come definirebbe il popolo centrafricano?
Un popolo accogliente, sereno, amichevole, sicuramente in cammino verso la scoperta di una leadership positiva, nel processo di scoperta delle proprie richezze umane e spirituali. Senza dubbio è un popolo che soffre, e malgrado la sofferenza è un popolo che sa ridere e sa condividere le gioie quotidiane, capace di non arrendersi.
E le violenze?
È un problema politico, la Repubblica Centrafricana è un Paese che ha subito in questi ultimi anni la pesante influenza di tanti fattori nazionali ed internazionali che hanno contribuito alla sua destabilizzazione, ma non è mai stato un conflitto intercomunitario o religioso.
Il 30 marzo, ci sarà l’investitura del presidente Faustin-Archange Touadera, confermato per un secondo mandato dopo aver vinto le elezioni del dicembre scorso. Secondo lei, qual è la chiave di lettura per la situazione attuale del Paese?
È un paese che è stato – purtroppo – penalizzato dalla negligente gestione di tanti anni e dall’instabilità politica. Situazioni che non hanno aiutato il consolidamento di una situazione regolare, a vari livelli. È vero che le elezioni si sono svolte in condizioni molto difficili, ma è anche vero che il presidente rieletto continua ad avere la sua legittimità politica, quindi c’è la volontà di rinnovare la fiducia nella sua persona, e penso che sia giusto.
Che questo sia veramente un passo avanti, verrà confermato da una gestione che dovrebbe essere più orientata a promuovere il bene comune, cercando di trovare le strade per rendere più forti le istituzioni, l’educazione, la salute. Cercando di incidere positivamente nel vissuto della gente e migliorandone le condizioni di vita. Essere capaci di trovare la via per una vera riconciliazione, per favorire una crescita per lo sviluppo, per la convivenza serena e pacifica.
La soluzione al conflitto permanente che conosce la Rca non è responsabilità unica dal Governo: oltre al coinvolgimento di tutta la comunità internazionale, ogni cittadino deve prendere coscienza delle proprie responsabilità, dei propri obblighi nel fare quotidiano.
Una delle sfide, quindi, è la formazione ad una cittadinanza responsabile?
Tutti devono essere coinvolti, in primo luogo la classe politica. Ma evidentemente anche la Chiesa, che deve dare in tanti aspetti la propria testimonianza. Anche noi facciamo parte di questa cittadinanza che deve maturare. Ci incoraggia il fatto che possiamo essere testimoni; far vedere la strada della fraternità, della comunione, lavorando e costruendo insieme.
La Chiesa in Africa condivide i problemi della società africana. Noi membri della Chiesa facciamo parte di questa società, non siamo una realtà a parte. Nella lotta contro tutto ciò che ci mette in difficoltà come cristiani, impariamo a capirci e scoprirci, a comprendere quanto abbiamo veramente bisogno gli uni degli altri; siamo “germe” di una società che vogliamo costruire. Ed è a questo che papa Francesco ci richiama con insistenza: ad una santità di vicinanza.
Sei anni fa, la visita di papa Francesco è stata un segno di speranza. Alla luce della situazione complessa di oggi, questo messaggio di speranza è ancora attuale?
Il passaggio di papa Francesco era stato molto atteso! I frutti di quella visita, che durò un po’ più di 24 ore, sono stati enormi, nessuno si aspettava un tale impatto.
All’epoca la sicurezza del papa costituiva una grande preoccupazione, ma il pontefice voleva proprio venire. Con il suo arrivo, è riuscito a sbloccare una difficile situazione di conflitto che si “respirava” nel Paese. In meno di 24 ore le strade si sono aperte, i muri sono caduti, è fiorita la speranza, la capacità di dialogo. Io stesso, al mio arrivo nel Paese due anni dopo quel passaggio, ho trovato questa realtà ancora viva. Il papa ha suscitato tante forze positive, tanta volontà da parte di tutti di trovare una via di pace.
Purtroppo, più tardi questa dinamica positiva si è andata perdendo; pian piano la situazione si è bloccata di nuovo, e i gruppi armati hanno ripreso il loro protagonismo. Penso, però, che nella memoria del Paese quel viaggio sia rimasto un fatto luminoso, straordinario. Tanti frutti positivi di quel viaggio esistono ancora oggi. Il papa è stato molto colpito dalla situazione del Paese ed ha voluto contribuire con un bellissimo gesto: la fondazione di un Centro contro la malnutrizione estrema dei bambini. Ha reso anche possibile che gli sfollati presenti a Bangui, che allora erano tanti, avessero la possibilità di trovare abitazioni adeguate e di riprendere una normalità nella loro vita, impossibile da immaginare nella loro precaria situazione.
La memoria del suo viaggio in Centrafrica è questa: la via del dialogo è sempre possibile, ed è sempre necessaria per una pace duratura; saremo capaci di arrivare alla pace se il dialogo e l’incontro non saranno soltanto una delle priorità, ma la via per eccellenza!