Renzo Piano e le città visibili

Salgo la scalinata interna del Palazzo dell’Arte della Triennale di Milano e raggiungo il grande spazio destinato alla mostra monografica sull’opera dell’architetto Renzo Piano. È come immergersi in un set cinematografico: plastici e modelli tridimensionali, grafici e gigantografie, carrucole e cavi che sospendono aggregazioni di elementi strutturali simili a scheletri di dinosauri. In più il tappeto sonoro che rimanda la mente al nostro vivere urbano… Con il suo titolo Le città visibili la mostra intende rendere omaggio alla memoria di uno degli artisti che più hanno influenzato la sensibilità di Piano – Italo Calvino -, ma al tempo stesso sottolineare la straordinaria valenza urbana dell’architettura di Piano, proponendo di leggere la feconda produzione di più di quarant’anni di lavoro sullo sfondo delle trasformazioni che hanno segnato il passaggio dalla città industriale del XX secolo a quella post-industriale del XXI. I numerosi progetti sono raccolti attraverso un efficace allestimento curato dal Renzo Piano Building Workshop e da Franco Origoni, i quali propongono una mostra suddivisa in alcuni nuclei fondamentali: la città delle arti, la città della musica, la città delle acque, le città d’affezione (Parigi, New York, Genova, Milano). In una recente intervista Piano dà indicazioni precise su come vede la città: Essa deve prima di tutto essere un luogo della civitas e della urbanitas, il luogo privilegiato dei rapporti sociali e del confronto tra le diversità. La città, intesa alla maniera della classica polis, deve insegnarti a vivere, deve essere un luogo dove possono esistere le tensioni, e non un luogo da cui fuggire. L’aria della città dovrebbe renderci liberi e insegnare a rispettare gli altri. E sulle periferie: Se le periferie diventano luogo di degrado, c’è qualcosa di sbagliato nell’idea che le ha fatte nascere. È sbagliato volerne fare dei semplici dormitori o ghetti di lusso, bisogna ripensare alle periferie come a veri e propri spazi multifunzionali: piazze, strade e giardini che siano luoghi di incontro. E se le fabbriche chiudono, trasformiamo le periferie in fabbriche di idee, in luogo di cultura. Ed aggiunge: La Harlem che io ho immaginato non è quella della violenza, ma il luogo politico di Martin Luther King e di Malcolm X…. Proprio qui ad Harlem, il progetto della Columbia University a New York si inserisce pienamente nel tessuto urbano, a contatto di una realtà sociale complessa, a differenza dei campus americani immersi in una natura paradisiaca ed incontaminata. La gente conserva un carattere etnicamente forte e di tradizione nera; i riti della città sono legati alla cultura della strada, la street culture, e per questo Piano ha progettato edifici sollevati da terra liberando i piani a ridosso della strada, che diventano luogo di scambio. Ha cercato di interrare tutte quelle funzioni che normalmente sporcano i piani terra come l’entrata dei garage e la raccolta dei rifiuti, per lasciare i piani terra aperti. In un contesto molto differente, quello della grande area delle acciaierie Falk a Sesto San Giovanni, si può fare un analogo discorso: anche qui il tema è far convivere la vecchia città industriale con il nuovo, sviluppando i grandi temi dell’energia. Il progetto prevede una quarantina di piccole torri residenziali a pianta quadrata, case alte che non toccano terra. Queste case galleggiano sul terreno, e creano una continuità visiva lungo la linea di terra, suggerendo una visione della città leggera, ma al tempo stesso tollerante con ciò che c’è già. Per rendere fruibile l’area in tutta la sua estensione, Renzo Piano e il suo staff stanno disegnando assieme alla Fiat sessanta piccoli autobus elettrici a pannelli solari in grado di muoversi lentamente ma in continuazione, senza dover aspettare più di due minuti e mezzo. Si vuole conservare lo scheletro delle grandi cattedrali industriali di Sesto San Giovanni perché costituiscono la memoria del posto e perché si pensa ad un grande parco di milioni di metri quadrati, nel cui contesto si prevede la costruzione di istituti di ricerca, uno di botanica e l’altro sull’energia con il fisico Rubbia. Renzo Piano non si limita ad una visione umanistica del vivere urbano ma la sua progettualità incrocia arte, architettura ed ingegneria in una sintesi davvero unica. Ci stiamo avvicinando, dice Piano, ad una fase più matura dove architettura e consapevolezza energetica nascono da una medesima, organica visione. Il secolo nuovo si apre su una grande finestra, che è la scoperta della fragilità della terra, della vulnerabilità della città, e l’architettura denuncia questa realtà. Forse con la sua qualità aerea, con il suo farsi più leggera, più sensibile… È d’esempio la sua ultima opera: la sede del New York Times, un edificio di 52 piani che sarà inaugurato il prossimo novembre, primo grattacielo costruito a New York dopo l’11 settembre. La sua facciata (pelle) che respira con l’ambiente, esprime un ragionamento energetico: vetro a basso contenuto di piombo molto trasparente, che non viene surriscaldato dai raggi solari perché è protetto da una doppia pelle formata da sottili cilindri di ceramica. Questi ed altri dettagli tecnologici che Piano studia e sperimenta, contribuiscono a formare un nuovo linguaggio e dare un valore formale all’intero edificio. È una architettura di leggerezza, di gioco e dialogo con l’ambiente. Nell’introduzione a Le città invisibili, Calvino scrisse che tutte le città, anche le più infelici, hanno un angolo felice e a quel luogo bisogna aggrapparsi. La città è piena di infelicità e di ingiustizia, ma è anche ricca di momenti straordinari; e qui, attraverso questa mostra, sembra condurci l’architetto Renzo Piano.

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