Religioni quale apporto alla pace?

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Quaranta giorni di preghiera. Una vera e propria offensiva di pace, quella lanciata da papa Wojtyla. Ma cosa può l’inermità delle braccia alzate contro la protervia dei mitra spianati? E un’invocazione che sale nell’immensità del cielo, per quanto accorata, che benefìci arreca alla gente in costante trepidazione per l’incubo di attentati o a quella schiantata da ottanta albe di bombardamenti? Le popolazioni di ogni latitudine – e non solo quelle afghane – guardano al futuro con smarrimento e intima paura. Proprio pensando ad esse, Giovanni Paolo II ha aperto le “ostilità” contro la logica della violenza armata con la giornata di digiuno del 14 dicembre scorso, volutamente in significativa concomitanza con la fine del Ramadan islamico. Ed era solo l’inizio. La sequenza è continuata con l’intervento nel giorno di Natale, seguito dal vibrante messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio. L’apice sarà toccato con l’incontro interreligioso di Assisi del 24 gennaio, ma di espliciti impegni per la pace tratteranno anche la settimana per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio) e la giornata (il 17) di dialogo ebraico-cristiano. Non abbiamo dubbi sulle intenzioni del pontefice e dei leader religiosi, soprattutto in questo momento della storia. Ma si possono nutrire perplessità sull’efficacia dei digiuni e delle preghiere in relazione ai destini, qui e ora, dell’umanità. Non è d’accordo Yudhishthir Raj Isar, induista. “Digiunare e pregare sono forme di testimonianza religiosa, ma anche di manifestazione politica – spiega il direttore del Dipartimento del dialogo fra le culture e le religioni dell’Unesco -. Sono atti che apparentemente sembrano di una debolezza unica, ma che invece hanno la capacità simbolica di essere pienamente comprensibili agli uomini di tutte le religioni”. E aggiunge: “Dopo quanto accaduto l’11 settembre, tra culture e religioni si sta sviluppando una nuova dinamica di dialogo”. Salvatore Natoli, docente di filosofia teoretica all’università di Milano Bicocca, è un laico. “Io non ho digiunato – chiarisce, ricordando il 14 dicembre -. Ma l’invito del papa mi ha provocato profondamente. Da allora ci spinge a riflettere sulle cause della guerra, della violenza, dell’ingiustizia. E ci sollecita alla contrizione. Credo che l’aspetto interreligioso sia la caratteristica più forte di questi momenti”. Per la verità, già in quella storica (e rigida) giornata del 27 ottobre 1986 ad Assisi, papa Wojtyla fece presente che “La preghiera è già in sé stessa azione, ma ciò non ci esime dalle azioni al servizio della pace”, tanto da esclamare: “La pace attende i suoi artefici”. È realista quanto basta, il pontefice polacco. Invita ad “adoperarsi per diffondere una maggiore consapevolezza dell’unità del genere umano”, come si legge nel messaggio per la Giornata della pace. E sottolinea che “i leader religiosi hanno una loro specifica responsabilità ” nel dare “comune testimonianza alla verità morale” e per un “servizio delle religioni alla pace tra i popoli”. Ma non tralascia di rimarcare che “la preghiera per la pace non è un elemento che “viene dopo” l’impegno per la pace”. Se quindici anni fa, Assisi rappresentò una novità assoluta, l’appuntamento del prossimo 24 gennaio non può non aprire a implicazioni civili e politiche di grande respiro. L’intento del papa promotore è chiaro: “Vogliamo mostrare che il genuino sentimento religioso è una sorgente inesauribile di mutuo rispetto e di armonia tra i popoli”. Una testimonianza che si fonda su una incrollabile fede nella paternità di Dio Amore che non può non ascoltare l’implorazione di pace che sale dai suoi figli. Soprattutto, adesso, quando la complessità della storia contemporanea sembra tutto ostacolare. Da quindici anni, la comprensione del valore del dialogo interreligioso ha compiuto, nonostante le scontate frenate dei timorosi, formidabili passi in avanti. Le sfide connesse con la globalizzazione dell’economia e del terrorismo impongono di progettare il futuro. E le religioni hanno molto da offrire. “Nessuno possiede risposte miracolose – chiarisce Gianni Colzani, docente di antropologia teologica all’università Urbaniana di Roma -. Occorre cercare insieme, occorre percorrere strade nuove. In questo cammino le chiese e i credenti possono essere compagni di viaggio animati da uno spirito nuovo”. BUONOMO UN ORDINE INTERNAZIONALE SU VALORI CONDIVISI Non c’è qualcuno che decide per tutti. Tanto meno adesso. Diventa perciò cruciale il contributo delle religioni. Se sono in dialogo tra loro. “Sembra che le sorti del pianeta siano oggi decise da pochi. Anzi, da qualcuno soltanto. In realtà, le relazioni internazionali e i conflitti tra paesi rispecchiano il nostro modo di vivere, le nostre con- vinzioni, le nostre intolleranze, il nostro modo di vedere l’altro”. Vincenzo Buonomo, giovane docente di diritto internazionale all’Università Lateranense di Roma, non ha dubbi al riguardo. Ne ha costantemente conferma nelle riunioni e conferenze indette dall’Onu e dal Consiglio d’Europa, in cui interviene come esperto. Ma il digiuno del 14 dicembre promosso dal papa e il suo messaggio per la Giornata mondiale della pace che influenza possono avere sulle decisioni dei capi di stato? “Non possiamo aspettarci che il messaggio del papa per la pace faccia cambiare la politica di qualche capo di stato sul piano interno o internazionale. Ma dobbiamo pensare che quel messaggio possa toccare l’uomo, che è anche capo di stato, e poi di conseguenza ispirarne la condotta”. Anche ora, nel nostro mondo globalizzato? “Ritengo sia ancora più vero in una società globalizzata, in cui ciò che avviene in un punto ha automaticamente ripercussioni in un altro punto (l’idea è di Kant, non dei tanti “guru” della globalizzazione). I cambiamenti non avvengono soltanto per decisione di qualcuno. Quel qualcuno esprime una coscienza collettiva”. Ma le preghiere e gli auspici (o i moniti) dei leader religioni, se hanno una qualche influenza sulle sorti del mondo, necessitano di tempi lunghi. Proprio quello che non serve in un mondo che va di corsa. “Oggi parliamo tranquillamente dello stato di diritto come una delle maggiori conquiste dell’epoca moderna: in realtà ha solo 200 anni, più o meno. Voglio dire che non possiamo pretendere che sul piano internazionale si sviluppino situazioni nuove in modo repentino, perché anche all’interno dei nostri paesi, attorno ad alcuni valori, assistiamo ad una maturazione graduale. A meno che non ci sia un’onda emotiva”. Come l’11 settembre? “Allora si fanno balzi in avanti. Il giorno dopo l’attentato agli Usa il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò una decisione in cui definiva che gli atti di terrorismo costituiscono un crimine contro l’umanità: un traguardo impensabile da raggiungere 24 ore prima. A Roma, nel ’98, quando fu elaborato lo statuto della Corte penale internazionale venne proposto lo stesso tipo di dizione: fu esclusa dagli stessi paesi che l’hanno poi adottata il 12 settembre”. Ma le chiese e le religioni sono confinate al ruolo di croce rossa della storia. Ad ottobre sono iniziati i bombardamenti. “L’impegno di carattere militare che c’è stato a partire dal 7 ottobre ha mostrato un altro tipo di lacuna, cioè la riduzione della politica internazionale a polizia internazionale. Se viene meno alla politica la capacità di pensare, di prevedere le situazioni, evidentemente ci si limita a compiere soltanto azioni punitive o di repressione. Ma quanto sono efficaci? Invece, è necessario progettare un futuro, puntando su valori che possono essere accettati da tutti. Ecco il ruolo delle religioni”. Peccato, però, che dalla fine della Guerra Fredda sembra che tutti i conflitti abbiano una causa religiosa. “Ci siamo trovati soprattutto di fronte a conflitti interni, che hanno lacerato popolazioni che vivevano una loro multietnicità e una multireligiosità in nome di una distinzione arrivata dall’esterno. Pensiamo alla Jugoslavia, all’area dei Grandi Laghi, in Africa, alla Sierra Leone, alla Liberia. Negli ultimi dieci anni le persone morte ammazzate dal machete sono pari alle vittime di sei delle bombe atomiche lanciate su Hiroshima. Ma quando i conflitti non erano motivabili con il fattore etnico (anche questo abusato), la religione è stata indicata, pretestuosamente, come causa della guerra. Gli esempi non mancano”. Ne faccia qualcuno. “L’identità della Bosnia o dei bosniaci era una realtà inesistente prima del conflitto nell’ex Jugoslavia. Ad un certo punto, per distinguere i bosniaci è stata loro assegnata un’identità anche con qualcosa di religioso: musulmani. È stata un’utilizzazione strumentale. Oppure Timor Est. Nel momento in cui la popolazione, con un referendum, ha deciso l’autonomia della zona orientale dell’isola di Timor, il problema ha assunto esclusivamente la natura di un conflitto interreligioso. Così sembra che la religione sia un fattore di intolleranza”. Con il pretesto dell’intolleranza religiosa si è cercato di nascondere la crisi della politica internazionale? “Quando il conflitto Est-Ovest basato sulla deterrenza nucleare, è finito, tutti pensavano di aver risolto i problemi dell’umanità. Invece i “crolli” del 1989 hanno riportato il mondo alla realtà, cioè alla “guerra” già esistente tra Nord e Sud, con un potenziale distruttivo maggiore di quello che poteva dare uno scontro nucleare, perché basato non sulla disperazione della armi, ma su quella delle persone. Le due superpotenze si erano guardate bene dal far partire un missile, ma, con persone che hanno problemi di sopravvivenza… anche le forme di terrorismo possono facilmente attecchire “. E tutto il gran parlare di nuovo ordine mondiale è accademia? “Il grande problema della fase storica attuale è la mancanza di progettualità. Anche nel ’91 si parlava di un nuovo ordine internazionale. Adesso, non sappiamo a cosa si sta puntando: ad una autorità mondiale? o ad una governabilità dei rapporti coinvolgendo tanti paesi? E come porsi di fronte a problemi come la pace, l’ambiente, la sicurezza, i diritti dell’uomo? Nuovo o vecchio ordine, le domande sono tante e, paradossalmente, sono quelle di sempre”. Qual è il quesito cruciale? “In questa fase ci si chiede che tipo di rapporti costruire con l’altro. Perché non è più possibile continuare a strutturare il sistema di rapporti internazionali in funzione di un nemico: che sia il paese vicino, che sia il paese in possesso di ricchezze o risorse energetiche, o che sia il paese in cui si addestrano i terroristi. Se permane la categoria del nemico, non ci sarà mai una progettualità di carattere politico”. In questo contesto, i leader mondiali sono più recettivi nei confronti dei valori delle grandi religioni? “Fuori dalla porta d’ingresso dell’assemblea generale dell’Onu, c’è un bel mosaico che raffigura persone con costumi diversi che sembrano venire incontro a chi guarda. Sotto c’è scritta la regola aurea: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, che accomuna le principali religioni ed ispira ogni cultura. Ora più che mai, tutti avvertono che è essenziale formare coscienze attorno a valori condivisi che rispettino il senso di umanità di ognuno e rispecchino l’unità della famiglia umana. Quando creo con l’altro un rapporto e sono capace di dialogare con lui, ho già costruito i due terzi dei rapporti internazionali”. Allora, quanto più le religioni sapranno dialogare tra loro, tanto più i valori comuni professati potranno influire sulla politica mondiale? “Certamente. Contribuiranno anzitutto a rispondere alle domande di fondo: chi è l’uomo? da dove viene? dove va? Oggi è fondamentale tornare a capire chi è l’uomo, piuttosto che definirlo, come fa adesso la politica internazionale, attraverso i suoi diritti, i suoi bisogni, le sue prerogative. Bisogna invece incominciare a ripensare chi è l’uomo. E la politica può farlo, non solo se si impegnano i capi di stato o qualche vertice planetario, ma se è attivo ciascuno di noi”.

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