Religioni: guerra e pace
Le religioni – è un’accusa che si ripete – portano guerre, conflitti etnici, violenze, soprusi di ogni genere. È la lettura, spesso in superficie, di una realtà fatta di condizionamenti politici, scelte etniche, lotte di caste, gruppi terroristici ideologizzati che nulla hanno a che fare con i veri insegnamenti delle religioni.
È interessante che il rabbino Alan Lurie scriva sull’Huffington Post che su una lista di 1763 guerre, meno del 7 per cento ha avuto una causa religiosa. La storia «semplicemente – spiega Lurie – non supporta l’ipotesi che la religione sia la causa principale dei conflitti bellici. Le guerre del mondo antico erano raramente, anzi mai, basate sulla religione, ma di conquista territoriale, di controllo delle frontiere, per rendere sicure le rotte commerciali o rispondere all’autorità politica».
Fatto sta che ammirare i vestiti variopinti, le diverse fogge dei copricapo di ebrei, cristiani, musulmani, indù, buddhisti, sikh, scintoisti e seguaci della Tenrikyo, una moderna religione giapponese, riuniti dal 17 al 20 marzo al Centro Mariapoli di Castelgandolfo, potrebbe sembrare una miscela potenzialmente esplosiva. Un rischio troppo azzardato. Eppure è una delle sfide più grandi e profetiche lanciate da Chiara Lubich.
Una rappresentanza di circa 250 persone provenienti da 25 Paesi rappresentano una novità assoluta anche per il Movimento dei Focolari dove il dialogo è stato sempre bilaterale: fra ebrei e cristiani in Argentina, negli Usa e in Terra Santa; fra musulmani e cristiani in molti Paesi del Medio Oriente, nel Nord America, in Asia e, più di recente, in Europa occidentale e nei Balcani; fra indù e cristiani in India e fra buddhisti e cristiani in Giappone, Thailandia e in altri Paesi dell’Asia.
Il titolo del convegno – “Insieme verso l’unità della famiglia umana” – esprime l’impegno e l’esperienza a costruire ponti di fratellanza fra seguaci di diversi credo. L’unità della famiglia umana, infatti, è un aspetto che caratterizza molte religioni. «Le religioni – dice Roberto Catalano del Movimento dei Focolari – del Sanatana dharma, il vero nome dell’induismo, da millenni parlano di vasudhaiva kuṭumbakam, cioè il mondo è una famiglia. È una dimensione che non dobbiamo ricercare solo nelle radici millenarie delle nostre fedi. Nel secolo scorso, il grande filosofo ebreo Martin Buber affermava che «c’è uno scopo nella creazione, c’è uno scopo per la specie umana: la costruzione della pace. Il mondo dell’umanità è fatto per diventare una cosa sola». Parlando con rabbini, imam, monaci buddhisti, semplici fedeli di tutte le religioni presenti a Castelgandolfo, pur in tutte le evidenti differenze culturali, religiose, di linguaggio, esiste una comune volontà di vivere il dialogo ispirandosi ai concetti chiave del carisma dell’unità: l’amore per Dio e per il prossimo, la fratellanza universale, l’attimo presente.
A chi si chiede come sia stato possibile tutto questo, rispondeva Chiara Lubich stessa con il suo intervento, l’ultimo nell’ambito del dialogo fra fedeli di religioni diverse, alla Westminster Hall di Londra, nel giugno del 2004: «Il segreto di questa capacità di raccogliere in unità persone così diverse sta in uno spirito evangelico, attuale e moderno che anima il nostro movimento: (…) “spiritualità di comunione”, la chiama il santo padre, che genera un nuovo stile di vita. Essa non è monopolio del nostro movimento perché, frutto di un carisma, è un dono destinato di sua natura a tutti coloro che nel mondo lo vogliono accogliere».
Sono numerose le esperienze concrete e di fattiva collaborazione presentate al convegno. È il dialogo della vita che diventa anche un metodo pedagogico nel libro “Un dialogo para la vida” della rabbina argentina Silvina Chemen, scritto con il teologo uruguayano Francisco Canzani per i tipi di Ciudad Nueva.
«Avevamo la segreta speranza – racconta Silvina Chemen – che questo libro arrivasse a spazi di formazione di sacerdoti e rabbini e abbiamo la felicità di dirvi in anteprima che quest'anno insegneremo insieme nel seminario sacerdotale e rabbinico della città di Buenos Aires. Sarà un corso su come costruire il dialogo in quanto leader di comunità religiose». È una metodologia che nasce dal percorso tracciato dalla strada del dialogo.
«Per un corso di Bibbia della mia comunità – dice la rabbina Silvina Chemen – abbiamo deciso di trascorrere un sabato, lo Shabbat, fuori della città, per sperimentare la santità del giorno di riposo in tutta la sua dimensione. Ho sentito che era il momento di portare la mia comunità alla Mariapoli di O’ Higgins, 250 chilometri a Sud di Buenos Aires. Non era un incontro di dialogo tra cristiani e ebrei. Andavamo solo per lo Shabbat. Avevamo bisogno di spazi come una sinagoga, dovevamo metterci d'accordo sui cibi che ci avrebbero offerto, sugli elementi riturali che avrebbero dovuto essere sulle tavole». Le persone della Mariapoli li accolgono con gioia, preparano ogni cosa e chiedono di partecipare alle loro preghiere. Così lo Shabbat comincia in uno spazio all’aperto, aspettando che la notte cadesse, con le candele accese, cantando le melodie. «Insisto – incalza Silvina Chemen – il programma non era pensato come un incontro di dialogo, ma tuttavia il dialogo accadeva. Ogni passaggio del nostro rituale era spiegato a tutti. Ognuno si è incaricato che chi era accanto si sentisse a suo agio e capisse cosa stavamo celebrando».
«Il giorno seguente, sacro per i cristiani, io non ho detto niente. Sapevo che c'era la Messa e sapevo che sarei andata. Quando mi sono seduta in Chiesa, mi sono girata e ho visto che poco a poco tutto il gruppo della comunità ebraica si stava avvicinando sedendosi tra quelli che erano lì per celebrare la Messa. Il sacerdote ci ha visto e commosso ci ha salutato. Ha spiegato molto di più di quello che prevede la liturgia. Abbiamo sentito che ci dedicava quella celebrazione. La comunione succedeva, lì, tra di noi. Lo Spirito di Dio era fra di noi».