Religioni e violenza: miti e realtà
I fenomeni religiosi, almeno a partire dal XVII secolo in poi, sono regolarmente collegati alla radicalizzazione della violenza politica all’interno di società altamente polarizzate e nelle quali le divisioni assumono caratteri di guerra civile o di contrapposizione identitaria.
Quanto c’è di vero in questa rappresentazione della religione come fattore scatenante o esacerbante rispetto ai conflitti politici e sociali?
Le religioni sono davvero un fattore di innesco, di amplificazione e di moltiplicazione dei conflitti violenti?
In realtà, le interpretazioni del ruolo delle religioni in contesti sociali contraddistinti dalla violenza anomica variano significativamente a seconda della prospettiva analitica nella quale sono inseriti.
Secondo un’ottica sociologica, le religioni, per così dire, “si scatenano” se vengono coniugate in termini identitari. Come scrive Enzo Pace, «le religioni entrano in guerra fra loro non tanto perché interpretano differenze di credo o antagonismi dottrinari insanabili, che di tanto in tanto, ciclicamente, riaffiorano, ma perché finiscono per diventare un dispositivo simbolico importante nelle politiche d’identità».
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La presunta combinazione/coniugazione tra religione e violenza ha una radice più profonda, ed è riconducibile a quello che William Cavanaugh ha definito “il mito della violenza religiosa”: esso consiste nell’idea che la religione sia un elemento di carattere trans-storico e trans-culturale della vita umana, essenzialmente distinto dai caratteri secolari della società come la politica o l’economia, e che presenterebbe una innata e pericolosa inclinazione a generare conflitti.
In realtà, le religioni (al plurale) hanno anch’esse una storia, fatta di fasi e congiunture molto differenti tra loro: come tutti i fenomeni della vita sociale organizzata, possono talvolta manifestarsi in forma violenta, ma questo non implica che esse siano strutturalmente tali.
Inoltre la violenza è connessa ad un’ampia gamma di motivazioni e di ideologie, come ad esempio la necessità di affermare la mano invisibile del mercato o il contestato ruolo egemonico di un determinato Paese nella politica internazionale (è, ad esempio, il caso degli Stati Uniti quando agiscono come “liberatore universale”). Storicamente, la violenza è connessa sia alle religioni che alle ideologie secolari e liberali. Si trovano esemplificazioni dell’associazione variabile della violenza con i più disparati credi o ideologie, come l’islamismo, il marxismo, il capitalismo, il cristianesimo, il nazionalismo, il confucianesimo, l’americanismo, il giudaismo, lo Stato-nazione, il liberalismo, lo shintoismo, l’induismo.
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L’associazione della religione alla violenza anomica e settaria è una delle grandi mistificazioni trans-storiche legate all’avvento di nuove forme di dominazione. La vicenda della creazione e affermazione dello Stato-nazione in Europa è, a tal riguardo, assai esemplificativa. Il passaggio dall’età medievale all’età moderna fu un processo lungo e complesso, e non fu in nessun caso una transizione dall’età della violenza all’età della pace perpetua, nonostante le religioni avessero perso gran parte della loro influenza politica nella vita pubblica. Ciò che accadde realmente fu una “migrazione” del sacro dalle Chiese internazionali allo Stato-nazione; la presunta separazione tra Stato e religione in realtà può essere letta nei termini di un processo di appropriazione del sacro da parte della politica nazionale (e nazionalista). «Lo Stato-nazione – scrive Silvio Ferrari – rivendica il monopolio del patriottismo e non è disposto a spartirlo con altri soggetti: la religione della patria – come si vedrà con chiarezza nella Prima guerra mondiale – è l’unica a potere legittimamente pretendere il sacrificio della vita dai suoi fedeli, i cittadini». Divenne legittimo uccidere per lo Stato, secondo l’antico motto dulce et decorum est/pro patri mori. In termini più prosaici, divenne “etico” «uccidere in nome di una compagnia telefonica»!
In politica estera, il mito della violenza religiosa serve oggi a costruire e sostenere l’“altro” non-occidentale e a giustificare, talvolta, il ricorso alla violenza contro di esso. La motivazione di fondo ha a che fare non tanto con la religiosità di altri popoli, ma con la dimensione pubblica che essi intendono assegnare alla religione. È pur vero che tale declinazione assume in alcune circostanze i caratteri dell’intolleranza e della negazione del pluralismo. Tuttavia, l’argomento utile a una politica estera aggressiva è semplicemente che ci si deve confrontare con società caratterizzate da un assetto politico presentato come intrinsecamente violento e irrazionale, e pertanto ciò non lascerebbe alcun margine di confronto e di dialogo costruttivo: la sola “risposta” sarebbe la guerra.
Da Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico di Pasquale Ferrara (Città Nuova, 2014)