Regina dei mari

Nella Cartagine dei fenici, alla ricerca di un popolo affascinante che con la sua audacia e intraprendenza costruì un impero commerciale sul Mediterraneo
Cartagine

Su quell'insenatura sassosa protetta da un basso promontorio erano sbarcati in una trentina, compresi gli schiavi: uomini barbuti dal berretto conico e la pelle abbronzata da un altro sole, costretti a indossare sulle tuniche pesanti mantelli. La loro nave – una strana nave il cui scafo panciuto, tutto nero di pece, aveva enormi occhi azzurri dipinti a prua – si dondolava a poche bracciate dalla costa.

A segnalar l'arrivo, dopo aver sciorinato tutte le loro mercanzie sulla spiaggia, avevano acceso un gran fuoco; poi erano risaliti a bordo. Di lì a poco, ecco farsi avanti con circospezione gli abitanti del posto: gli antenati degli odierni bretoni. Erano irsuti, imbacuccati in tetri camicioni scuri: a dei greci avrebbero ricordato immediatamente i coreuti di una loro tragedia. Dietro gli uomini, ma a distanza, le donne e i bambini.

Portavano con sè, per barattarli, pecore e altro bestiame minuto, pesce fresco o in conserva, pelli e i pochi prodotti della terra; ma a quelli della nave nera interessava soprattutto lo stagno di cui abbondava la penisola, quello stagno che in grandi pani sarebbe andato a riempire la stiva. Per questo s'erano spinti audacemente, su rotte insidiose e incerte, ben oltre le Colonne d'Ercole, fino al brumoso Nord.

Attratti irresistibilmente da tante meraviglie esposte, oggetti mai visti da quelle parti, gli uomini si passavano di mano in mano utensili di ferro d'uso quotidiano, dalle cesoie ai coltelli ai vomeri d'aratro; le donne si mangiavano con gli occhi collane, braccialetti, orecchini d'oro, d'argento e di pietre lavorate, si estasiavano per tessuti e vetri dai fantastici colori; i bambini dal canto loro ridevano, strillavano, si additavano ora gli idoletti in terracotta, ora i curiosi amuleti a forma di scarabeo.

Attraverso tutta quella paccottiglia frammista a prodotti di gran pregio, dagli stili più diversi, a spezie e a frutti inusitati, il Mediterraneo riversava per gli inconsapevoli abitanti di quella costa sperduta, qualcosa dell'opulenza, dei colori, dei sapori un po' di tutti i popoli che vi si affacciavano.

Dall'alto della nave dalle azzurre pupille, gli stranieri non perdevano d'occhio l’andirivieni sulla spiaggia, e intanto facevano grandi sorrisi e cenni amichevoli. Chi aveva qualcosa da scambiare, lasciava accanto all'oggetto desiderato quello che riteneva di valore equivalente. Poi tutti si allontanavano dietro l'orlo delle rocce. Solo allora gli uomini venuti da lontano si portavano a terra, e a seconda della convenienza accettavano il baratto o se ne tornavano a bordo a mani vuote. In tal caso, il rito si ripeteva fino alla comune soddisfazione.

Ma dopo tre giorni ormai, nuovi venuti e nativi avevano a tal punto familiarizzato che ci si fidava a contrattare direttamente sulla spiaggia, cercando di spiegarsi a cenni. Quando non rimase più nulla da dare e da prendere, sulla nave ingordamente carica fu rizzata di nuova l'antenna, i remi la spinsero al largo e la grande vela quadra a strisce bianche e rosse palpitò di nuovo al soffio possente dell'Atlantico. Il cavallo scolpito a prua sembrava agognare la corsa con le narici frementi. Il cavallo, simbolo di Cartagine…

E a Cartagine ci troviamo ora dopo questa scena immaginaria che però riproduce molto verosimilmente il modo di commerciare dei fenici, un popolo la cui fortuna si costruì tutta sul mare possedendo il monopolio di un'arte, quella del vetro, che, se non inventata, fu da essi comunque portata ad un livello di perfezione mai raggiunto da altri nell'antichità. Cartagine, che fu la principale colonia fenicia, la potente regina dei mari e la più agguerrita rivale di Roma, prima di essere da essa annientata.  

Oggi la città punica e poi romana è celata in gran parte dalla ricca periferia di Tunisi, tra ville e giardini, e solo a fatica sta tornando alla luce grazie alla moderna indagine archeologica; chi è rimasto affascinato dalla Cartagine barbarica ed opulenta del mito e della poesia, quale la ricreò Flaubert in Salammbô, proverà forse una delusione nel rintracciarne gli sparsi resti. I principali sono le necropoli col tofet, ossia l’area sacra dove venivano deposti i resti inceneriti dei fanciulli consacrati al dio Baal Hammon e alla dea Tanit; il porto militare, che conserva ancora la sua forma circolare con al centro un isolotto dove aveva sede il comando; il quartiere di Annibale con le sue stradine, case e botteghe, abbastanza integro perché seppellito dai romani per terrazzare il foro; una grande basilica di epoca bizantina e quel che resta delle terme di Antonino, che dovevano essere grandiose a giudicare da una colonna del frigidarium alta 20 metri e sormontata da un capitello di quattro tonnellate.

Più completa è l’immagine di questa civiltà che si ricava dalla visita al Museo coi suoi reperti di epoca punica e romana. Qui, attraverso mosaici e sarcofagi in marmo, statuette laminate in oro, avori, bronzi, stele votive, maschere ghignanti, testine femminili, ceramiche, splendidi gioielli e, naturalmente, vetri, è ripercorsa l’epopea fenicia con le tappe successive di espansione dal lembo di terra d'origine, corrispondente press'a poco all'attuale Libano, a Cipro, dove si rifugiò la mitica Elissa (la Didone virgiliana), dal Nord Africa a Malta, alla Sicilia, alla Sardegna e all'Italia tirrenica, alle Baleari e alla Spagna: luoghi dove, nel volger dei secoli, essi tesserono la stupefacente rete delle loro rotte e costruirono il loro impero commerciale.

È stata l'archeologia a fornirci i documenti principali sull'universo fenicio, in quanto le testimonianze scritte di questo che, non si dimentichi, fu un popolo molto diffamato, molto odiato e alla fine annientato, andarono perdute o vennero distrutte, mentre quelle che rimangono, dovute ai vincitori, sono per lo più di parte. Oggi di fenicio non restano che poche iscrizioni e gli innumerevoli testi incisi sulle stele funerarie, limitati però ai nomi e alle dediche.

Strano destino di un popolo che, avendo ideato l'alfabeto, non ha tramandato quasi nulla di sé attraverso la scrittura, costituendo pertanto un enigma. Chi erano veramente? Era solo la brama di guadagno a spingerli ad arrischiare la vita su rotte mai tentate prima da altri? Avevano un volto proprio, o bisogna rassegnarsi a indovinarlo, mutevole com'è, attraverso manifestazioni di costume, d'arte e d'artigianato che richiamano un po' tutti i popoli che prosperarono attorno al Mediterraneo, dagli assiri ai greci agli egiziani?

Vicini eppure sfuggenti, hanno reso enormi servigi al progresso umano (basti pensare, ancora una volta, alla scrittura alfabetica), ma la sconfitta – e più ancora la mancanza di un loro pensiero, che li avrebbe portati ad elaborare dei valori, come avvenne per i greci – ha fatto sì che non lasciassero tracce nel nostro patrimonio mentale.

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