Referendum, perché votare No. Il costo della democrazia

A proposito del referendum, non si può paragonare il Parlamento ad una azienda. E i tagli finanziari, tra l’altro, sono  irrisori. Nel mondo in crisi pandemica c’è bisogno, come nel dopoguerra, di maggiore partecipazione e rappresentatività. Un contributo per il dialogo aperto sul Focus Referendum costituzionale 2020  
Referendum. Campagna per il NO FOTO Cecilia Fabiano/LaPresse

Referendum 20 e 21 settembre 2020. Quella del numero dei parlamentari è una questione annosa, che risale all’Assemblea costituente. Ci furono diverse sedute in cui i “padri costituenti” cercarono di capire quale fosse il numero più adatto o se fosse prioritario stabilire un rapporto tra deputati e cittadini. La questione non è semplice e ogni posizione ha i suoi punti di ragionevolezza; ma provo ad argomentare perché, sia il taglio in sé, sia il contesto in cui viene proposto, mi portano a propendere convintamente per il No.

Le ragioni del Sì fanno leva sui temi del risparmio e dell’efficienza, accompagnati spesso dal paragone con gli altri Paesi europei che, tuttavia, per ragioni storiche e culturali, hanno sistemi (costituzionali, legislativi, governativi) in alcuni casi molto diversi.

Referendum per risparmiare?

Partiamo dal primo punto: il risparmio. I partiti sanno che questo è uno dei motivi che incontra il favore dell’opinione pubblica. Ma davvero con la riforma costituzionale si risparmia? No, lo dice anche Tito Boeri, l’ex presidente dell’INPS, che, pure, è a favore del Sì. O meglio, si risparmiano cifre risibili che, di fatto, non giovano al Paese. Infatti, si risparmierebbero, a suo dire, circa 80 milioni di euro che in un debito pubblico di 2.500 miliardi, non sono nulla. L’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, guidato da Carlo Cottarelli, ribassa ancora di più il risparmio: 57 milioni all’anno, pari allo 0,007% della spesa pubblica complessiva.

L’altro aspetto su cui, invece, Boeri è d’accordo, è quello dell’efficienza: rendere il Parlamento meno affollato – si dice – evita sprechi e garantisce maggiore efficienza in termini, ad esempio, di capacità di controllo sul lavoro dei parlamentari che, essendo di meno, possono “nascondersi” più a fatica.

Si cita in molti casi uno studio, sempre di Boeri e di Roberto Perotti, pubblicato su Repubblica in cui si nota che nella scorsa legislatura il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni. L’ex presidente dell’INPS in un’intervista alla trasmissione L’aria che tira ha aggiunto che se il Parlamento fosse un’azienda normale, sarebbe in esubero.

Viene da chiedersi: è corretto paragonare un Parlamento ad un’azienda? Non vedo, inoltre, come la riduzione di poco più di un terzo dei parlamentari – e di poco meno di un terzo dei deputati – sia in linea con quel profondo spirito costituzionale in cui il Parlamento in generale – e la Camera dei deputati in particolare – è visto come il luogo di approfondimento dei più alti problemi della nazione. Certamente – qualcuno sosterrà – non sempre chi ne ha fatto parte ha reso onore a tale spirito. Ma ridurre il numero dei rappresentanti dei cittadini per tagliare chi si comporta irresponsabilmente assomiglia molto al comportamento di chi si taglia il dito perché è sempre punto dalle zanzare; queste non si sazieranno più del sangue ricercato, ma il malcapitato amputato riserva per sé il dispetto più molesto. Non è rendendo il Parlamento un luogo meno accessibile ai cittadini che si riduce la percentuale di chi lavora meno.

Inoltre, la visione che sorregge il cosiddetto «taglio delle poltrone» assomiglia, più che ad un genuino pensiero liberal-popolar-democratico, ad un tendenziale oligarchismo illuminato, generato da una sostanziale sfiducia verso i concittadini, e in cui in pochi sanno cosa sia il bene comune e sono in grado di realizzarlo, mentre tutti gli altri devono cercare, più o meno volontariamente, di adeguarsi.

Non si vuole negare l’utilità di una doverosa revisione del sistema dei benefici di cui gode, molto spesso, chi fa politica ad un certo livello. Ma non è togliendo rappresentatività che si riducono gli sprechi.

Uno dei parametri a cui guardare è quello, invece, della rappresentatività. Quando i costituenti approvarono l’articolo 56 della Costituzione, non fissarono un numero assoluto ma, per la Camera dei deputati, un rapporto tra eletti ed elettori di un seggio (1 a 80 mila), per il Senato tra eletto e abitanti (1 a 200 mila). Fu la riforma costituzionale del 1963 che introdusse il numero fisso di 630 deputati e 315 senatori.

Nel 1963 il rapporto tra cittadino e deputato era 1 a 80 mila. Oggi è di 1 a 95mila e 600. Con la riforma costituzionale diverrebbe 1 a 150 mila. Il rapporto, invece, tra eletti ed elettori alla Camera attualmente è di 1 a quasi 82 mila, se la riforma passasse diventerebbe di 1 a 129 mila. Alcuni storcono il naso davanti a questi dati: per loro occorrerebbe, infatti, tenere conto anche dei senatori, dato il bicameralismo paritario italiano.

In realtà, non solo anche per i costituenti il punto nodale di discussione fu stabilire un rapporto eletto-elettori soprattutto per la Camera, ma va anche tenuto conto del progetto di riforma del bicameralismo da molti anni prospettato.

In caso di riforma, la diminuita rappresentatività della camera bassa avrebbe un peso ancora maggiore. In ogni caso, attualmente il rapporto tra parlamentari e popolazione italiana è circa 1 a 64 mila (nel 1963 1 a 54 mila); quello tra parlamentari ed elettori 1 a 54 mila e 500. Con la riforma, quello tra parlamentari e popolazione diverrebbe 1 a 102 mila, mentre tra parlamentari ed elettori 1 a 86 mila. È vero che in altri Paesi, come la Germania, il rapporto tra deputati ed elettori attualmente è più basso (1 a 117 mila circa), ma va altrettanto chiarito che lì il funzionamento del sistema democratico è profondamente diverso.

Un accenno, infine, al contesto: in tempi come quelli di crisi pandemica, che azionerà una delle crisi economiche più gravi degli ultimi decenni, è cogente togliere rappresentatività al popolo italiano, posto che l’aspetto finanziario della riforma è relativamente nullo? A me sembra di no.

Credo che il mondo post-covid debba andare nella direzione diametralmente opposta: quello di un maggiore peso e di una più robusta partecipazione e responsabilità da parte dei cittadini.

Per tutto questo non è inutile citare, concludendo, un “padre costituente”, il comunista Umberto Terracini: «se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare».

Questo principio valeva nel 1946, all’indomani dell’età della frana, così come nel 2020, al tempo della pandemia. La democrazia ha un costo finanziario, sociale, culturale; scommette sulla parte migliore dell’essere umano e va di pari passo con la capacità di una società di consentire agli individui di essere liberi e altruisti. Tagliare questo costo e assicurarsi il più possibile dal rischio che non tutti siano responsabili e onesti, tuttavia, espone ad un’evenienza molto più grave: l’allontanamento dei cittadini dall’attività legislativa.

Nota bene:

questa intervento  rientra del dialogo aperto promosso da Città Nuova per discutere in maniera aperta e ragionata sulle ragioni del No e del Sì in merito al referendum costituzionale in programma per il 20 e 21 settembre in Italia.

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