Referendum, partiti e società
Referendum costituzionale. A pochi giorni dalla scadenza del 20 e 21 settembre, prima ancora del merito di cosa si andrà a votare, assume un valore preminente l’effetto politico di questo referendum che non si è potuto svolgere il 29 marzo per il sopravvenire della pandemia.
La riduzione del numero dei deputati e senatori è una istanza forte del Movimento 5 Stelle che l’ha proposta all’interno di un disegno originario che prevedeva l’introduzione del referendum propositivo. Daniele Fraccaro, ora sottosegretario alla presidenza del consiglio, è stato ministro del primo governo Conte con delega “alle riforme istituzionali e alla democrazia diretta”. In questa direzione si può comprendere la costante richiesta dei 5 stelle di rimuovere il divieto del vincolo di mandato inserito nell’articolo 67 della Costituzione italiana: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Troppe volte infatti si è assistito a cambi di casacca per convenienza (è recente la condanna di un ex un senatore corrotto dal capo del partito avverso). Ma il divieto del mandato imperativo è anche posto a garanzia della libertà di coscienza dell’eletto (come avvenuto nelle votazioni sui decreti sicurezza cd Salvini).
Nel dibattito sulla democrazia parlamentare incide, poi, quanto affermato da Davide Casaleggio, del M5S, a proposito dell’«inevitabile superamento», in futuro, della democrazia rappresentativa di tipo novecentesco.
L’attuale riforma votata massicciamente dalle Camere prevede,tuttavia, solo la riduzione del numero dei parlamentari (da 915 a 600) variando 3 articoli della Carta (artt. 56,57 e 59). Al contrario, ad esempio, della proposta Renzi-Boschi promossa nel 2016 (e bocciata al referendum) che modificava 49 articoli della Costituzione.
Accordo di governo
La riduzione del numero dei parlamentari non è stata ostacolata dai partiti di opposizione e fa parte dell’accordo (Pd, 5 Stelle, Leu con l’aggiunta di Italia Viva nata per scissione dal Pd) che ha dato vita al governo Conte 2 con l’impegno ad «avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale».
Esiste, in effetti, una bozza di legge elettorale (Germanicum) destinata a sostituire quella vigente (Rosatellum) votata nel 2017, da Pd e centrodestra con l’opposizione dei 5 stelle. Arriverà in discussione in aula a Montecitorio dopo il referendum costituzionale. Anche se è saltato l’accordo sull’impianto proporzionale della legge, prima ancora di aver affrontato la questione decisiva sulla scelta dei candidati: si prevede, come adesso, una nomina da parte dei partiti? Oppure si reintroducono le preferenze o altri metodi di selezione dei candidati? Un tema niente affatto marginale.
I 5 stelle sul loro blog ufficiale ribadiscono che, con un minor numero di parlamentari, «ci sarà poco spazio per piazzare dei nomi in lista contando sull’abbondanza dei posti. Chi candiderà qualcuno che magari porta denaro o vanta un credito “politico” e poi in Parlamento fa l’imboscato rischia di trovarsi scoperto in commissione e in Aula».
Di parere opposto, i sostenitori del No vedono, come effetto della riduzione del numero degli eletti, la decisione dei capi partito a mettere in lista solo i fedelissimi, tagliando le minoranze interne.
Partiti e club
Parlando del referendum emerge, quindi, il nodo della democrazia nei partiti. È molto drastica, in questo senso, l’analisi di Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Partito popolare, secondo il quale è insopportabile per i cittadini lasciare la definizione degli eletti in mano a partiti che ormai «sono dei club costituiti non si sa in quali sedi e comunque al vertice, e non sono espressione di processi democratici che partono dalla base». Castagnetti voterà per il No così come i referenti del movimento delle “sardine” che, prima della pandemia, avevano riportato in piazza il mondo del centrosinistra puntando sulla partecipazione popolare da opporre al protagonismo mediatico di Salvini.
È per il Sì la maggioranza del direttivo nazionale del Pd. Una scelta, accompagnata dalla promessa del segretario Zingaretti di lanciare una raccolta di firme per il superamento del bicameralismo paritario. La proposta, cioè, di un’altra riforma costituzionale sollecitata dalle pagine di Repubblica da Luciano Violante, ex presidente della Camera e ora presidente della Fondazione Leonardo (già Finmeccanica).
È difficile valutare la spinta propulsiva delle “sardine” come resta un’ incognita la capacità di ripresa di un “partito non partito” come il Movimento 5 Stelle che non ha riempito solo le piazze, ma anche le urne elettorali fino a conquistare la maggioranza relativa alla Camera e al Senato determinando la nascita di due governi di colore diverso.
Le imminenti elezioni in 6 regioni lo vedono fuorigioco, ma la vittoria del Sì potrebbe aiutarlo a rinsaldare le fila dopo diversi abbandoni. Ha contro gran parte della stampa, con solo “Il Fatto” guidato da Travaglio schierato con determinazione per il Sì, come nel 2016 lo era per il No.
I “giornali partito”
Si può dire che la progressiva crisi di rappresentanza dei partiti abbia fatto emergere dei “giornali partito”, in grado di esprimere cioè una forte identità culturale che non coincide con un linea di partito, ma può determinarla. Avviene con il Fatto, ma anche con i giornali del gruppo Gedi. Il settimanale Espresso è stato il primo a schierarsi per il No, seguito poi dal quotidiano Repubblica. Sullo sfondo è evidente che esistono prospettive diverse sui possibili cambi di maggioranza del governo chiamato a gestire il decisivo capitolo del Recovery Plan. Il richiamo continuo all’autorevolezza di Mario Draghi risente evidentemente anche di queste strategie.
Il centrodestra è schierato formalmente per il Si, ma esistono prese di posizione per il No di diversi parlamentari ( si veda intervista alla Binetti o le dichiarazioni di Brunetta). I diversi fogli di quell’area mostrano una forte insofferenza per una vittoria annunciata della riforma targata 5Stelle. Salvini e Meloni dichiarano di rappresentare, con partiti sempre più legati al nome del leader, la maggioranza reale del Paese, da palesare con il “cappotto” da fare nelle elezioni regionali.
Il valore delle regole
In via generale bisogna considerare che, da sempre, l’attenzione degli esperti è stata quella di evitare una tale combinazione di riforme costituzionali e legge elettorale tale da portare una forte minoranza degli elettori ad avere una spropositata rappresentanza in Parlamento. L’articolo 138 della Costituzione prevede, infatti, di non dover ricorrere al referendum confermativo in caso di riforme costituzionali approvate da entrambe le Camere in seconda lettura dai 2/3 dei parlamentari. Una blindatura che funziona con un sistema elettorale proporzionale (che esprime cioè la società nella sua complessità e pluralità).
Un centinaio di personaggi (Rosy Bindi, Luigi Ciotti e altri) chiedono di evitare la vittoria del Si perché «un Parlamento rimpicciolito sarà inevitabilmente più debole di fronte ai veri poteri forti del Paese e meno rappresentativo».
Oltre 200 costituzionalisti si sono esposti per il No, ma voci autorevoli come l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida non vedono un rischio per la democrazia. Anzi esiste la possibilità che «cogliendo l’occasione della riduzione del numero di eletti, si metta mano ai regolamenti e a certe prassi parlamentari per migliorare l’efficienza dei lavori delle camere». Anche il politologo della Luiss Roberto D’Alimonte, grande sostenitore della riforma del 2016, è a favore del Si come spinta verso altre riforme affermando che, dopo il referendum, si potrà «votare, se fosse necessario, con il Rosatellum».
Presidio di comunità
Di sicuro i pochi giorni che restano prima del voto possono rappresentare l’occasione per un vero confronto, capace di affrontare tanti nodi rimasti irrisolti della nostra democrazia. Qualsiasi riforma costituzionale non può essere fatta a colpi di maggioranza o per convenienza strategica, ma in base ad uno spirito fondativo, “costituente”, che nasce dentro la società. Mancando questo passaggio, i risultati rischiano di essere sempre controversi e contraddittori.
In tale contesto Città Nuova, così come è avvenuto nel 2016, si schiera decisamente per costruire uno spazio aperto ad un dialogo esigente e competente. Liberi di affrontare, nella prospettiva del bene comune, le questioni aperte nella loro complessità. Consapevoli di presidiare uno di quei fronti dove, con le tensioni della crisi aggravata dalla pandemia, è messo in pericolo il patto politico di una comunità.
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Venerdì 11 settembre ore 20.30
iniziativa di dialogo on line
Taglio dei parlamentari: solo una questione di numeri? Una serata (on line) per informarsi e confrontarsi
promosso dal Movimento Politico per l’Unità della Lombardia, in collaborazione con FLest e il Centro Mariapoli “Luce”