Referendum del 12 giugno sulla giustizia. Le ragioni di una scelta
Se si legge il testo dei quesiti referendari, esso risulta alquanto incomprensibile per la maggioranza dei cittadini ed estremamente cavilloso anche per gli addetti ai lavori.
In realtà, lo strumento del referendum abrogativo ha un ambito molto circoscritto e talvolta rischioso, perché opera una eliminazione “chirurgica” ed istantanea di disposizioni legislative che sono state frutto di ampio dibattito parlamentare, in cui hanno trovato spazio le ragioni delle varie espressioni politiche.
In caso di referendum abrogativo si rischia di cancellare norme complesse per finalità che poco o nulla hanno a che vedere sul reale esito della consultazione popolare.
Fatta questa indispensabile premessa, bisogna ora capire quali siano le effettive conseguenze di questi “tagli”.
PRIMO QUESITO
Si riferisce alla incandidabilità dei soggetti condannati alle cariche politiche ed amministrative.
In sostanza, si tratta di abolire la c.d. “Legge Severino” introdotta nel 2012, la quale impedisce ai cittadini, che abbiano riportato una condanna definitiva per delitti non colposi, di presentarsi alle elezioni.
È di assoluta evidenza che l’eliminazione di questa norma (volta ad arginare il fenomeno della grave e diffusa illegalità nella Amministrazione Pubblica) consentirebbe ai soggetti condannati per reati dolosi, di ricoprire cariche pubbliche, così svilendo ulteriormente l’attuale classe politica, già ampiamente coinvolta in scandali, collusioni, vicende corruttive, situazioni opache e così via.
Peraltro, la circostanza che l’incandidabilità scatti soltanto quando si tratti di vicende oggetto di sentenze divenute definitive, dopo l’espletamento di ben tre gradi di giudizio (e quindi non in base a provvedimenti giudiziari provvisori) mette sufficientemente al riparo dal pericolo di esclusioni dell’elettorato passivo frutto di valutazioni sommarie ed affrettate.
SECONDO QUESISTO
Riguarda la limitazione delle misure cautelari previste dal codice di procedura penale, ed in particolare la norma che prevede l’emissione della misura qualora sussista il pericolo, concreto ed attuale, che il soggetto commetta ulteriori delitti della stessa specie di quello per cui si procede.
In altri termini, in caso di abrogazione della norma, il giudice non potrebbe più emettere misure cautelari restrittive in relazione a tutti quei casi in cui vi sia il pericolo concreto che l’indagato, se lasciato privo dell’applicazione di una di queste misure, torni a commettere reati del medesimo tenore.
Attualmente la possibilità di applicare un provvedimento di custodia cautelare è già assai limitata ed è circoscritta ai soli casi di pericolo di inquinamento della prova, di fuga o della commissione di gravi reati; eliminando questa terza ipotesi, si finirebbe per esporre eccessivamente i cittadini al pericolo di commissione di nuovi reati da parte di soggetti che in tal modo potrebbero tornare a delinquere in attesa del giudizio definitivo.
Si deve inoltre evidenziare che la disposizione normativa di cui si chiede l’abrogazione non concerne soltanto la custodia cautelare (in carcere o agli arresti domiciliari), ma riguarda anche le misure cautelari non detentive, privando così la collettività di ogni forma di tutela dell’incolumità pubblica.
Ad esempio, l’abrogazione dell’articolo in questione non consentirebbe più di far ricorso alle misure dell’allontanamento della casa familiare o del divieto di avvicinamento nei confronti di vittime di maltrattamenti familiari, di stalking o di violenza sessuale, proprio laddove vi sia il concreto pericolo che l’indagato possa, durante il processo, tornare ad insidiare, minacciare o aggredire le persone vittima di abusi.
TERZO QUESTITO
Cconcerne la separazione delle funzioni dei magistrati. Si tratta di abrogare le norme (già oggi molto limitative) che consentono, nel corso della carriera dei magistrati, il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle inquirenti e viceversa. In questo modo, si renderebbe irreversibile la scelta, operata dal magistrato all’inizio della carriera, circa le funzioni di Giudice o di Pubblico Ministero da esercitare, senza possibilità di cambiare.
In verità, non si vede quale sia il “vantaggio”, per l’amministrazione della Giustizia, nell’impedire che chi ha svolto le funzioni di giudice possa anche (ma in un’altra provincia) svolgere le funzioni di Pubblico Ministero.
La formazione dei magistrati sinora è stata identica, con pari preparazione universitaria e di accesso al concorso. La possibilità di cambiare funzione nel corso della lunga carriera del Magistrato è elemento che arricchisce l’amministrazione della giustizia.
Chi, come colei che scrive, ha potuto svolgere sia le funzioni giudicanti che quelle inquirenti, ha acquisito un arricchimento professionale da entrambi i ruoli ed è stato facilitato a capire meglio ed a rispettare i diversi incarichi, che contribuiscono a formare la dialettica processuale.
È un falso problema affermare che in tal modo si eviterebbe la dipendenza o, addirittura, la sudditanza del giudice rispetto al Pubblico Ministero, perché il magistrato risponde esclusivamente alla legge, pur nella diversità dei due ruoli.
QUARTO QUESITO
Attiene alla materia della partecipazione dei membri non togati (ovvero avvocati e professori universitari) a tutte le deliberazioni del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari.
È un quesito molto tecnico, che presuppone una certa conoscenza dell’Ordinamento Giudiziario, ovvero dell’insieme di norme che regolano il funzionamento di detti organismi, chiamati tra l’altro a deliberare e vigilare sull’attività e sul comportamento dei magistrati, nonché sulla loro progressione in carriera.
I membri laici (avvocati e professori universitari) fanno già parte di questi organi, ma non hanno diritto di voto sulle materie sopracitate.
Viceversa, l’attribuire a tali soggetti (soprattutto avvocati, in quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, i professori universitari di diritto esercitano anche la professione legale) la possibilità di esprimere valutazioni dell’attività dei magistrati, al pari dei membri togati, costituirebbe un’anomalia, dal momento che il magistrato si vedrebbe giudicato dalle stesse persone che svolgono, nel medesimo distretto, l’attività processuale, minando così alla radice la loro imparzialità e serenità di giudizio.
QUINTO QUESITO
Afferisce all’elezione dei componenti togati del CSM. Si tratta di modificare una procedura piuttosto complessa ed estremamente tecnica, che avrebbe la finalità, nell’intento dei promotori, di “scardinare” il sistema delle correnti finora in vigore, permettendo candidature individuali senza la sottoscrizione di presentatori.
Tuttavia, nulla garantisce che la estrema frammentazione delle candidature, che in tal modo si favorirebbe, possa rimanere esente da influenze, più meno occulte, da parte delle diverse “correnti” che, a parole, si vorrebbe lasciare fuori dalla porta. L’estrema delicatezza della materia, con riferimento ad un organo di rango costituzionale come il CSM, suggerirebbe un approccio assai più ponderato ed approfondito da parte del Parlamento.
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In merito al referendum sulla giustizia del 12 giugno 2022 cittanuova.it dedica una serie di articoli di diversa opinione consultabili nel focus Referendum giustizia
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