Recovery fund per ripulire l’Italia

Non possiamo sprecare l’opportunità delle risorse previste dalla Ue con il Recovery fund per rispondere alla grave crisi emersa con la pandemia. Gli interventi necessari in Italia e il ruolo dello Stato. Giovanni Dosi, direttore dell'istituto di Economia della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.
Recovery fund per l'Italia AP Photo/Antonio Calanni)

A proposito della destinazione delle risorse europee del Recovery fund esiste il rischio di assalto alla diligenza. Con i portatori degli interessi più forti che rischiano di fare la parte del leone, a scapito del bene comune, sotto il mantello di formule accattivanti come “New green deal” o transizione ecologica.

Dopo le linee guida del piano di rilancio elaborate dal governo, si tratta ora di entrare nel dettaglio di un programma da presentare in Europa in merito ai 209 miliardi di euro destinati al nostro Paese sotto forma di sussidi e di prestiti a tasso agevolato.

Seppure rilevanti, i 750 miliardi di euro complessivi del Recovery plan esprimono una cifra inferiore a quella necessaria per rispondere alla crisi fatta emergere dalla pandemia, secondo il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz intervistato, via social, dall’economista Leonardo Becchetti durante il recente Festival di Pordenonelegge.

Si tratta comunque di un cambio di direzione a livello Ue nei confronti delle politiche di austerity adottate finora, si pensi al caso greco, e che fanno emergere il ruolo dell’intervento dello Stato nell’economia.

Su questi temi abbiamo raccolto il parere di Giovanni Dosi, professore ordinario di Economia e direttore dell’istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Co-direttore delle task force “Politica industriale” e “Proprietà intellettuale” presso l’“Initiative for Policy Dialogue”, ong fondata, presso la Columbia University, da  Joseph Stiglitz.

Parte di questa analisi è riportata nell’inchiesta di ottobre del mensile Città Nuova.

Ritiene che le decisioni prese dalla Ue rappresentino un cambiamento radicale di impostazione nei confronti della logica dell’austerità adottata per la crisi del 2007-2008? Le scelte compiute recentemente dall’Unione europea sembrano la negazione della linea ordoliberista, lacrime e sangue, seguita finora e che ha provocato danni non solo ai Paesi del Sud. Ma i tanti custodi, in Europa, dell’ortodossia violata fanno notare, che si tratta solo di un’eccezione destinata a rientrare dopo la straordinarietà dovuta al coronavirus. Per questa ragione bisogna stare attenti ad aderire al Mes, se non in casi estremi, perché si tratta dello strumento più idoneo per farsi imporre delle linee di condotta circa le condizioni di rientro del nostro debito.

Confindustria sembra il soggetto con le idee più chiare a proposito delle scelte strategiche fondamentali che deve prendere il nostro Paese nel piano di ripresa…
Confindustria mostra di avere le idee molto chiare nel senso che, in sostanza, dice: «Dateci i soldi e ci pensiamo noi che sappiamo cosa fare». Ma non si tratta di politiche industriali quanto di un sistema di trasferimenti monetari che, a mio parere, sono dispendiosi e di scarsa utilità, tranne in casi di progettualità definite come nel caso di Industria 4.0. Il Recovery fund è il contrario di questo approccio. Vanno prima definiti degli obiettivi e poi stanziate le risorse necessarie per realizzarli.

Quali scelte andrebbero compiute con questo metodo?
Esistono delle missioni evidenti di utilità pubblica da perseguire. Ad esempio investire in sanità ripristinando un efficiente sistema di medicina di base, ma anche nella ricerca tecnologica nel settore dei vaccini in generale, negli antibiotici di nuova generazione, in grado di vincere la resistenza dei batteri, e nelle terapie immunologiche per i tumori. Teniamo presente che in questo caso esiste un predominio della Novartis che copre il 70% di tali terapie così costose da mettere in bancarotta il nostro sistema sanitario nazionale che deve acquistarle per mantenere livelli di accessi pubblici alle cure. Per alcune terapie si paga a tale azienda privata 200 mila euro a persona. Costo che può abbattersi aggirando la enormi rendite percepite dalle multinazionali in questo settore. Esempi virtuosi, in questo senso, si sono avuti all’ospedale Bambino Gesù di Roma.

Altri interventi strutturali di questo tipo?
Abbiamo poi una parte considerevole del nostro territorio che ha bisogno di essere recuperato e bonificato. Un lavoro, che possiamo definire “ripuliamo l’Italia” e di dimensioni tali da rimandare al ruolo esercitato, negli Usa, dalla società pubblica della Tennessee Valley Authority, costituita nel 1933 dal presidente Roosevelt, per il recupero e valorizzazione di un vasto territorio colpito dalla crisi del 1929. Nell’Italia di oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dagli interventi nella Terra dei fuochi alle falde inquinate dal pfas, dall’uranio impoverito e all’amianto disperso in tante costruzioni, ecc…

Insomma qualcosa strettamente collegato con l’obiettivo della transizione ecologica…
Certo! Ma c’è un altro aspetto da valorizzare. Quello della ricerca delle università su progetti non finalizzati alle direttive delle imprese. È proprio dalla ricerca “pura” che si generano, in tempi non programmati, applicazioni utili per la società. Non si può ridurre l’università ad una sorta di istituto professionale per le imprese. E poi c’è il grande capitolo della digitalizzazione, che vuol dire estendere la fibra in tutto il territorio e usare la tecnologia 5G senza farsi condizionare dalla paura per la presenza della cinese Huawei ma agevolando, con serie condizioni, la collaborazione con più imprese. Da Nokia all’italofrancese Stmicroelectronics.  C’è, infine, la grande partita dell’idrogeno “verde” (prodotto da fonti rinnovabili, ndr). Una vera e propria rivoluzione da mettere in atto.

Dal punto dell’organizzazione produttiva la task force promossa dal Ministero dell’innovazione, dove ha collaborato, ha anche proposto la riduzione dell’orario di lavoro a salario invariato. Un’idea che ha avuto la prima pagina di Avvenire ma è stata rimossa rapidamente dall’informazione…
Si tratta, invece, di una soluzione fondamentale, già avanzata da Keynes quasi cento anni fa e che si pone nel senso di lavorare meno, ma tutti, condividendo i benefici dell’innovazione tecnologica. Andando avanti nella direzione attuale avremo, altrimenti, una minoranza di lavoratori superpagati, o almeno in maniera decente, e un enorme proletariato impoverito e senza diritti (come nel futuro distopico immaginato nel film Blade runner).

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons