Record mondiale nel consumo di petrolio
Per la prima volta nella storia del nostro pianeta il consumo di petrolio ha raggiunto il picco di 100 milioni di barili al giorno: 5 miliardi di tonnellate all’anno, da cui originerà la emissione nell’atmosfera di 16 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.
Quindi malgrado la tendenza a privilegiare il consumo di gas naturale e di energie rinnovabili, il consumo di petrolio continua a crescere: lo si deve ai consumi di energia elettrica e carburanti delle centinaia di milioni di famiglie dell’Asia e dell’Africa che prima cucinavano con la legna ed ora hanno qualche elettrodomestico e vendono i loro prodotti anche fuori del loro villaggio.
Questo “record” porta la quantità di petrolio consumato molto prossima a quella massima disponibile sul mercato, così all’impatto ambientale si aggiunge anche quello economico: il prezzo internazionale, che due anni fa per il grezzo di riferimento Brent era di 35 dollari al barile, è già salito ad 84 dollari e per i prossimi mesi si parla di 100 dollari a barile.
Il limite di produzione è dovuto al fatto che si è investito di meno nella ricerca e che alcune disponibilità sono diminuite per motivi diversi, in Libia per i conflitti fra bande armate, in Venezuela per mancanza di manutenzione, altrove per difficoltà di trasporto, in Russia perché il petrolio è stato trovato in regioni remote, negli Stati Uniti perché le ferrovie sono ormai intasate dai lunghi treni di ferro cisterne che portano il grezzo del fracking ai centri di raccolta.
Ma la goccia – si fa per dire – che sta facendo traboccare il vaso, sono state le sanzioni decise da Donal Trump che bloccano la esportazione di grezzo iraniano: purtroppo per lui, visto che la produzione statunitense non riesce a giungere nei porti per l’esportazione per essere venduta al suo posto, il suo “America First” in questo caso non funziona.
Così egli assiste all’aumento del prezzo internazionale, preoccupato forse perché ricorda il 2008, quando il prezzo del petrolio era arrivato a 150 dollari al barile facendo crescere l’inflazione del suo Paese: per contrastarla il presidente della Federal Reserve di allora, Ben Bernanke aveva alzato i tassi di interesse del dollaro, provocando una crescita dell’importo delle rate dei mutui immobiliari che le molte famiglie povere che si erano comperate la casa con i soldi delle banche non erano così più riuscite a pagare.
Quella insolvenza molto diffusa aveva compromesso il rimborso delle obbligazioni immobiliari che le avevano finanziate e travolto le banche che le avevano garantite; era fallita così la grande banca internazionale Lehman Brothers e si era innescato uno “tsunami finanziario” che ha travolto l’economia dell’intero pianeta, con conseguenze di cui l’Italia ancora oggi soffre.
Forse Donald Trump, sapendo che l’indebitamento privato e di molte aziende del suo Paese che hanno speculato sul petrolio da fracking è addirittura superiore a quello del 2008, non vuole giungere ad una situazione analoga, in un momento in cui l’economia americana è già surriscaldata, con un tasso di disoccupazione del 3,8 %, il minimo degli ultimi 18 anni.
Non volendo rinunciare alle sanzioni all’Iran, Trump ha chiesto a Mohamed Bin Salman, giovane leader della amica Arabia Saudita noto come MBS, di aumentare ancora la sua già molto alta produzione; così, forse per rassicurare il mercato, anche se l’operazione non risultava particolarmente conveniente, MBS si è accordato col vicino Kuwait per riattivare nel territorio di confine i vecchi pozzi di Khafji and Wafra, grezzi di qualità pessima, abbandonati anni fa per ragioni ambientali ed operative.
Quindi alle tensioni finanziarie endogene della politica italiana si aggiungono altre tensioni che non dipendono dalla sola Italia: non solo la fine del quantitative easing, l’acquisto di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea inventato da Draghi per contenere le rendite finanziarie ed i costi dei debiti dei Paesi europei, ma anche l’aumento dei tassi dei titoli di stato statunitensi a cui per trovare compratori anche i titoli italiani si dovranno allineare; adesso si aggiunge la inflazione provocata dall’aumento del prezzo del petrolio.
Tutto questo dovrebbe suggerire al governo italiano che il momento internazionale del presente non consente manovre che comportano il rischio di un ulteriore aumento del debito pubblico, visto che vari fattori di origine esogena comporteranno già un maggior costo del debito ereditato dai governi precedenti.