Record italiano nell’esportazione di armi
La relazione annuale consultabile sul sito del Governo fotografa un settore in forte espansione e disegna scelte di investimenti a lungo termine. Una politica da rivedere
Siamo abituati a vedere la dicitura “made in China” su molti prodotti e non ce ne meravigliamo, perché sappiano che si trova nel grande paese asiatico la fabbrica del mondo. Ma, secondo gli esperti, nel declino industriale che interessa il nostro Paese, ancora riusciamo a mantenere un vantaggio competitivo su un settore: la produzione di armamenti di alta tecnologia.
E’ questa la prevalente attività di Finmeccanica, gruppo industriale che vede ancora il Ministero dell’Economia e Finanze come maggiore azionista al 30 per cento. A novembre del 2008, ad esempio, il Ministero ha sottoscritto un aumento di capitale dell’azienda per 250 milioni di euro e ha concorso in tal modo a raggiungere l’obiettivo di acquistare il controllo della DRS Technolgies, gurppo industriale statunitense specializzato nella fornitura dell’elettronica per la difesa per il Pentagono.
Un’operazione complessa che ha richiesto il coinvolgimento di molte banche, tra cui Mediobanca, Goldman Sachs e Joint Global Coordinators. Ma, come afferma il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Francesco Guargaglini, le prospettive vanno oltre il legame con il maggior alleato atlantico in quanto «il nostro Gruppo opera ormai in uno scenario globale, con una posizione chiave in molti Paesi, ad esempio Russia, India, Emirati Arabi, Malesia e con prodotti di eccellenza in diversi settori a forte crescita».
La proiezione verso i mercati dei Paesi emergenti risponde alla stima che fanno gli analisti dell’industria bellica, come lo stesso condirettore di Finmeccanica, Alessandro Pansa, che prevedono il mantenersi di una certa supremazia tecnologica occidentale per un periodo di circa 10-15 anni. Ogni fiera internazionale del settore rappresenta, perciò, un’occasione per stringere nuove alleanze commerciali che non possono non incidere anche sulla politica estera dei diversi paesi. Diventa, quindi, comprensibile l’appello che regolarmente compiono i governanti italiani, indifferentemente dal colore politico, quando compiono viaggi promozionali in Cina e concludono con la formula di rito sulla richiesta all’Unione Europea di rimuovere il divieto di esportazioni di armi verso Pechino.
La relazione annuale sull’export di armi, consultabile dal sito del Governo, grazie alla legge 185 del 1990, rappresenta una fotografia della situazione attuale che vede il volume delle esportazioni autorizzate nel 2009 attestarsi a quasi 5 miliardi di euro. Relativamente all’export effettivo invece il valore è aumentato da 1 miliardo e 772 milioni di euro, registrato nel 2008, ai 2 miliardi e 205 milioni di euro del 2009. Un trend in continua crescita già nel 2008 rispetto agli anni precedenti, come si può notare nello studio reso accessibile dall’Istituto di ricerca internazionale Archivio Disarmo sul proprio sito.
Come fa notare una nota della Rete Italiana Disarmo, i cui rappresentanti sono stati ricevuti dall’Ufficio del Consigliere militare del Presidente del Consiglio, il grande balzo in avanti nell’esportazione, è arrivato dalla fornitura all’Arabia Saudita, via Regno Unito, del caccia multiruolo EFA Eurofighter che l’Italia produce congiuntamente con Germania, Spagna e appunto Gran Bretagna. Il portavoce della Rete, Francesco Vignarca, ha messo in evidenza come «il 53 per cento delle autorizzazioni ad esportazioni definitive nel 2009 si è diretto verso paesi non appartenenti alla NATO o all’Unione Europea, con un abbassamento quindi della quota dei paesi geopoliticamente e strategicamente a noi più vicini ed alleati che si tengono solo il 46 per cento delle esportazioni contro il 69 per cento dello scorso anno».
Un rapporto, quello del governo, che registra l’esito di una politica degli investimenti e delle scelte industriali in un settore, come quello delle armi, segnato da una notevole innovazione tecnologica e da una capacità di diversificare il parco dei compratori. Tanto che, ad esempio, sembrano non allarmare le recenti notizie che provengono dagli USA sul programma dei caccia bombardieri Jsf35, in cui l’Italia è coinvolta sia come acquirente, che come fornitrice di componenti tramite le aziende di Finmeccanica. La Corte di conti statunitense ha, infatti, chiesto al produttore Lockheed Martin di rivedere il contratto per l’abnorme lievitazione dei costi, passati dai 50 milioni a 133 milioni di dollari per aereo, secondo i dati forniti dal Ministero della Difesa al Congresso.
Oltre il dato contabile, ovviamente, resta da chiedersi se non sia immaginabile e praticabile un diverso orientamento degli investimenti e della nostra politica industriale. Sembra non applicabile nei fatti, quel “principio di sufficienza” secondo il quale si dovrebbe produrre quanto basta per la propria difesa. È intanto cambiato il concetto di difesa, che può giustificare qualsiasi intervento nel mondo, e la dinamicità del mercato conduce verso l’espansione di queste esportazioni verso una più ampia fetta di acquirenti in grado di giustificare un ritorno adeguato alle risorse impegnate dal nostro Stato.