Record di investimenti in energie rinnovabili nel 2015
Uno degli effetti della caduta del prezzo del petrolio è stata la deviazione degli investimenti nell’area delle energie rinnovabili. Il 2015 è stato infatti un anno record per gli investimenti in questi progetti. Non solo, ma per la prima volta i Paesi in via di sviluppo hanno superato quelli industrializzati in quantità di investimenti. Paesi come la Cina, l’India, ma anche il Cile, il Messico, l’Uruguay e il Brasile sono oggi leader in questo processo. In Uruguay praticamente più della metà dell’energia prodotta proviene dall’eolico e il resto dalle centrali idroelettriche. Insieme alla Costa Rica è un Paese che non ha praticamente bisogno di energia proveniente da fonti tradizionali.
I dati sono forniti dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) nel dossier “Tendenze globali degli investimenti in energie rinnovabili 2016”, nel quale si segnala che lo scorso anno gli investimenti dei Paesi industrializzati sono calati dell’8 per cento, ragiungendo quota 130 miliardi di dollari, mentre quelli dei Paesi in via di sviluppo sono lievitati del 19 per cento, per un totale di 156 miliardi di dollari.
Il decimo dossier redatto dal Programma indica che nel complesso gli investimenti (escludendo le grandi centrali idroelettriche) hanno raggiunto nel 2015 un nuovo record, ascendendo a 286 miliardi di dollari, circa un tre per cento in più rispetto all’anno precedente, quando la spesa per la ricerca e lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili è stata di 270 miliardi.
In testa tra i principali investitori figura la Cina, con più di un terzo della somma totale, 102 miliardi. A grande distanza appare l’India, con 10 miliardi, seguita dal Sudafrica, 4,5 miliardi di dollari; abbiamo poi il Messico con 4 miliardi, il Cile con 3,4 miliardi, oltre a Paesi come il Marocco, la Turchia e l’Uruguay, che fanno ora parte della lista degli investitori che hanno speso più di un miliardo di dollari in questo settore.
L’Europa ha registrato una notevole diminuzione, -21 per cento, con una spesa di 48 miliardi. Secondo l’organismo dell’Onu si tratta della cifra più bassa spesa dal Vecchio continente negli ultimi nove anni, nonostante un record di investimenti in progetti eolici in zone marittime. Il calo si spiega con la scarsa crescita economica della regione europea e con politiche poco favorevoli allo sviluppo di energie pulite. In crescita la spesa degli Stati Uniti con 44 miliardi di dollari (+19 per cento), mentre il Giappone si mantiene stabile con investimenti per 36 miliardi.
Lo sviluppo di energie rinnovabili è un fatto importante per l’efficienza energetica e per porre un freno alla deforestazione, pilastri nella lotta contro il cambiamento climatico che minaccia l’abitabilità di numerose regioni della Terra.
Il dossier informa che nel 2015 gli incrementi di produzione di energia rivelano l’incidenza delle fonti rinnovabili con un aumento della capacità di 134 gigawatt provenienti da fonti rinnovabili, con l’esclusione delle grandi dighe idroelettriche, che hanno prodotto altri 22 gw di incremento, mentre le centrali nucleari hanno prodotto 15 gw in più, quelle a carbone 42 e le centrali a gas altri 40.
Tra le energie rinnovabili l’eolico è in testa al ranking produttivo (62 gw) insieme all’energia fotovoltaica (56 gw). Circa 16 gw sono poi stati incrementati dall’uso della bio-massa, dafonti geotermiche e dalle centrali idroelettriche più piccole.
Nonostate i segnali ambiziosi dopo la COP21 (summit di Parigi) e la crescente capacità delle nuove installazioni di energie pulite, c’è ancora tanta strada da fare, sostiene Udo Steffens, della Frankfurt school of finance, che ha collaborato alla redazione del dossier. In effetti, anche se le centrali di energie rinnovabili crescono a un ritmo superiore a quelle più contaminanti «le centrali termiche convenzionali, come quelle a carbone, hanno un funzionamento di lunga durata». Significa che «senza un nuovo intervento politico, le emissioni di CO2 con un forte impatto sul clima continueranno ad aumentare per almeno dieci anni», avverte Steffens.
Gli scienziati sostengono la necessità di ridurre le emissioni di gas da effetto serra tra il 40 e il 70 per cento tra il 2010 e il 2050, se si vuole limitare l’incremento della termperatura del pianeta al di sotto della media di due gradi, come prevede l’accordo siglato a Parigi nel dicembre scorso da 190 Paesi.