Ravenna, splendore di resurrezione

La città che con i suoi superbi cicli a mosaico del V e VI sec. racconta all’uomo di tutti i tempi il suo straordinario destino.
ravenna

La proiezione è appena finita che Pubblio mi si avvicina con aria sorniona, sussurrando: «Sai, facevi tenerezza per l’entusiasmo che ci mettevi a illustrare i mosaici di Ravenna a un pubblico a cui non gliene importava niente». Sempre impietoso, Pubblio. No, un moderato interesse l’ha pur suscitato, negli amici convenuti per l’occasione, l’artigianale serie di diapositive di cui dispongo. La verità, piuttosto, è che l’insoddisfatto sono io. Ho visto solo una pallidissima e quasi irriconoscibile immagine di ciò che l’estate scorsa mi si è rivelato dietro la dimessa scorza di laterizio rosso, in prolungate "contemplazioni", a San Vitale e negli altri monumenti ravennati, e cioè quello splendore di resurrezione di cui ho ancora il baluginio negli occhi.

Ma non importa. Ravenna è ormai parte di me. In fondo me la son conquistata, sdegnando spiagge iodate e ventilate oppure balsamici effluvi oltre i mille metri, ad onta del buon senso mio o di chi mi compativa: «A Ravenna una decina di giorni in pieno agosto, senza fare bagni di mare, col caldo soffocante e le zanzare della piana romagnola? Scherzi? Via, se proprio vuoi bearti dei famosi mosaici, due giorni saranno più che sufficienti!…».

Ma ormai, pur fra gli scrupoli per il tiro che avrei giocato a chi mi trascinavo appresso, la mia scelta era fatta: volevo "vivere" questa città paleocristiana e bizantina, erede di una storia millenaria e serbatoio di bellezza e alta spiritualità, senza le contrattazioni di tempo a cui è soggetto il turista frettoloso, quello – per intenderci – che consuma dosi massicce di arte rischiando la "sindrome di Stendhal",

 

Con questo animo ho avvicinato Ravenna silenziosa, sepolta in un suo oblio verdazzurro-e-oro, gli abitanti discreti e cortesi di oggi, e più ancora quelli di ieri: grandi figure del passato e personaggi anonimi che, ieratici o serenamente assorti, ti guardano dai cicli a mosaico, moltiplicati a dismisura dalle riproduzioni fotografiche o musive nei negozi, per cui il tuo tragitto è quasi costantemente accompagnato dagli occhi enigmatici di Teodora, che qui in verità non mise mai piede, dalla lontana Costantinopoli: eppure il suo posto – per l’eternità – è proprio nel fastoso corteo di San Vitale, di fronte al suo regale sposo Giustiniano.

Chi visse invece a Ravenna – e vi è a tutt’oggi presentissima, anche se non in effigie – è un’altra donna e imperatrice: Galla Placidia, la discussa figlia di Teodosio, che già nel nome metà battagliero e metà stillante mitezza esprime la complessità di un’esistenza costretta a barcamenarsi tra il turbinio delle vicende politiche del suo tempo e l’aspirazione ad una pace che solo una fede impavida poté ottenerle. Ne è testimonianza splendida il celebre mausoleo, fuori garitta disadorna, dentro visione paradisiaca, dove il dolore è superato e, dissetati alle acque vivificanti della grazia, si consuma un’eternità beata, agnelli sotto lo sguardo amoroso di Cristo-Pastore.

 

Bianche teorie di sante e santi recanti corone fasciano entrambe le navate di Sant’Apollinare Nuovo, avanzano come un’onda musicale verso l’abside rimasta spoglia del suo rivestimento musivo. Dove andranno? Se a quello spazio vuoto sostituiamo il pieno della stupenda conca verde-coro dell’altro Apollinare, disseminata di candidi agnelli, volatili e fiori smaglianti, avremo il naturale approdo verso cui precipitano i secoli e la storia: quei "cieli nuovi e terre nuove" pagati da Cristo, come ricorda la croce gemmata sospesa sul santo vescovo fermato nel gesto dell’orante: l’uomo nuovo definitivamente riscattato dalle scorie terrene, ma non per questo meno vicino a noi.

Uomini ed esseri celesti, regno animale e vegetale, tutto qui è in perfetta armonia, percorso da un fremito di resurrezione, soffuso di un sovrumano splendore. Viene da ricordare il distico di epoca teodoriciana che si legge in una cappella del vescovado: «O la luce è nata qui, o, imprigionata, qui liberamente spazia».

Se per assurdo sparisse dal mondo il senso dello spirituale, basterebbe entrare in una delle basiliche di Ravenna per ricominciare il cammino, spinti da un anelito verso l’infinito. E si capisce perché Dante, che ha qui la tomba, doveva concludere la sua vita e il suo poema in questo estremo asilo. Per l’Inferno gli erano bastate le lacerazioni politiche della sua Firenze, al Purgatorio si addiceva il doloroso esilio, ma per la terza cantica, il Paradiso, era necessaria Ravenna.

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