Ravenna e Dante. «La bellezza ch’io vidi…»
Anni fa visitai Ravenna, la città famosa in tutto il mondo per i suoi mosaici bizantini che vanta ben otto monumenti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Monumenti che, dietro il loro dimesso rivestimento in laterizio rosso, si rivelano all’interno con tali visioni di ori e colori nelle superfici mosaicate da evocare splendori paradisiaci.
Deciso a “vivere” l’antica capitale dell’Impero romano d’Occidente sepolta in un suo oblio verdazzurro-e-oro, trascorsi alcuni giorni in compagnia di grandi figure del passato e di personaggi anonimi che, ieratici o serenamente assorti, mi guardavano dai cicli a mosaico moltiplicati a dismisura dalle riproduzioni fotografiche o musive dei negozi, quasi costantemente accompagnato dagli occhi enigmatici di Teodora, che qui in verità non mise mai piede dalla lontana Costantinopoli (eppure il suo posto – per l’eternità – è proprio nel fastoso corteo di San Vitale, di fronte al suo regale sposo Giustiniano).
Chi visse invece a Ravenna – e vi è a tutt’oggi presentissima, anche se non in effigie – è un’altra donna e imperatrice: Galla Placidia, la discussa figlia di Teodosio, che già nel nome metà battagliero e metà stillante mitezza esprime la complessità di un’esistenza costretta a barcamenarsi tra il turbinio delle vicende politiche del suo tempo e l’aspirazione ad una pace che solo una fede impavida poté ottenerle. La incontrai nel celebre mausoleo, fuori cubo disadorno, dentro penombra accogliente dove il dolore è superato e, dissetati alle acque vivificanti della grazia, si consuma un’eternità beata, agnelli sotto lo sguardo amoroso di Cristo-Pastore.
Bianche teorie di sante e santi recanti corone fasciano entrambe le navate di Sant’Apollinare Nuovo, avanzano come un’onda musicale verso l’abside rimasta spoglia del suo rivestimento musivo. Quando in quello spazio immaginai inserirsi la stupenda conca verde-coro dell’altro Apollinare, disseminata di candidi agnelli, volatili e fiori smaglianti, ottenni il naturale approdo verso cui precipitano i secoli e la storia: quei “cieli nuovi e terre nuove” pagati da Cristo, come ricorda la croce gemmata sospesa sul santo vescovo fermato nel gesto dell’orante: l’uomo nuovo definitivamente riscattato dalle scorie terrene, ma non per questo meno vicino a noi.
Uomini ed esseri celesti, regno animale e vegetale, tutto a Ravenna è in perfetta armonia, percorso da un fremito di resurrezione, soffuso di un sovrumano splendore. Viene da ricordare il distico di epoca teodoriciana che si legge in una cappella del vescovado: «O la luce è nata qui, o, imprigionata, qui liberamente spazia».
Se per assurdo sparisse dal mondo il senso dello spirituale, basterebbe entrare in una delle chiese ravennati per ricominciare il cammino, spinti da un anelito verso l’infinito.
Si capisce perché Dante, che ha qui la tomba, doveva concludere la sua vita e il suo poema in questo estremo asilo. Per l’Inferno gli erano bastate le lacerazioni politiche della sua Firenze, al Purgatorio si addiceva il doloroso esilio, ma per la terza cantica, il Paradiso, era necessaria Ravenna.
E proprio la Divina Commedia e i mosaici di questa città sono oggetto di una mostra – «La bellezza ch’io vidi… (Paradiso XXX, 19)” – che si propone di avvicinare i turisti, e riavvicinare i ravennati, a questi capolavori musivi a partire da una chiave di lettura originale. Promossa dall’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia in collaborazione con “Dante in rete”, il comitato scientifico che ha curato la scelta delle immagini e dei testi, la mostra allestita nel nuovo complesso espositivo di Sant’Apollinare Nuovo fino al 6 gennaio 2019 illustra i tanti rimandi possibili tra i mosaici, di cui si offrono straordinarie riproduzioni luminose, e le terzine dantesche, attraverso un testo esplicativo tratto da Iconografie dantesche di Laura Pasquini e i commenti di André Frossard, l’ateo convertitosi al cattolicesimo nel 1935, che nel suo Vangelo secondo Ravenna ha spiegato d’arte dei mosaici ravennati come rivelazione di verità e bellezza, come Vangelo appunto.