Rapportarsi con le emozioni

L’autrice di questo contributo ha 22 anni, studia scienze della comunicazione e diritti umani e lavora come giornalista. Ci parla del tema dell’intelligenza emotiva e della gestione delle emozioni, riflettendo su storie legate alle fasi delicate dell’adolescenza e della giovane età adulta e ne trae sottolineature e indicazioni dalla prospettiva, appunto, dei giovani.

Le emozioni, è risaputo, sono qualcosa di molto complicato da gestire che può mettere in difficoltà chiunque le provi, magari perché scaturite da un nuovo contesto o da un nuovo sentire. Ci vorrebbe una guida che mostri come si fa, un corso da seguire, un manuale che dia risposte. Di fatto ce ne sono già molti, anche best seller per altro, come il manuale di Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva. In questo l’autore spiega come la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, comunemente definita “intelligenza emotiva”, non sia altro che una coscienza più approfondita della propria interiorità nei punti di forza ma anche in limiti e debolezze. Questa consapevolezza, poi, non si estende solo a sé stessi ma anche alle persone di cui ci si circonda, nei termini di comprensione di quanto e come le proprie caratteristiche personali influenzino gli altri.
In questo articolo si prova a fornire esempi concreti, storie legate a fasi molto delicate della vita ovvero l’adolescenza e la giovane adultità, quelle in cui più di tutte si inizia a comprendere di avere un mondo di emozioni molto complesse dentro di sé. In questi momenti della vita si impara a gestirle o meno, si prende esempio dalle persone a cui si è più legati. Le amicizie assumono un ruolo particolarmente importante, l’aiutarsi tra coetanei però spesso si rivela non sufficiente, rimangono interrogativi. Difficile, tra l’altro, che un giovane legga un intero manuale di intelligenza emotiva: sarebbe utile, ma purtroppo è raro. Allora ecco la necessità di far arrivare in maniera accessibile tutte queste informazioni. Sarebbe importante, anche nell’insegnamento scolastico tra cui quello della religione, assicurare ai ragazzi un’educazione all’affetti-
vità (non come viene intesa e praticata oggi, che risulta anche limitativa) nel pieno senso della parola: educare a gestire i sentimenti.

Analfabetismo emotivo

È il termine che si usa per definire l’opposto dell’intelligenza emotiva, ovvero l’incapacità assoluta di gestire le proprie emozioni e di riconoscerle, oltre che non comprendere gli effetti che queste hanno sulle altre persone.
Laura ha 21 anni, studia medicina. Arriva a Milano dal Lazio per frequentare l’Università Bicocca, un grande salto, non ci sono amici lì ad attenderla. Ma non ha paura e si butta, troverà qualcuno con cui stare bene. Incontra Marco, suo coetaneo e collega universitario. Sembra un ragazzo simpatico e intelligente, lei peraltro sembra non essergli indifferente. Potrebbero diventare amici, pensa Laura, così iniziano a conoscersi, ma dopo poco comprende come Marco abbia qualcosa di strano nei suoi atteggiamenti. Un giorno vanno a fare sport insieme, il giorno dopo non la guarda né la saluta in università. Per un periodo si siedono vicini e si aiutano mentre il professore spiega, eppure lui non le scrive neanche un “come stai?”. Laura è turbata, decide di parlargli. Si incontrano e sembra essere comprensivo, dice che non aveva fatto caso a questo suo comportamento, che non era deliberato, che gli dispiaceva. Ma la situazione dopo un po’ ritorna quella di prima. Laura all’inizio non se lo spiega, poi si rassegna, sta con altri amici, accetta questa natura altalenante di Marco. Un giorno lui però le fa un discorso che la lascia di pietra: Marco ogni giorno si alza alle cinque o
sei di mattina, va a correre, studia fino a sera, va a dormire. All’obiezione di Laura del perché studia così tanto, perché non si preoccupa anche di fare altro, di
prestare attenzione agli amici e alle sue emozioni invece di essere così razionale, lui risponde che in questo modo se gli chiederanno in cosa è bravo nella vita potrà dire “studiare”. Laura vede Marco come una sorta di macchina che prende
tutti trenta in medicina, ma il cervello uccide il cuore, lì in fondo c’è qualcosa, magari rachitico, freddo, non ancora in grado di esprimersi. Deve esserci, giusto?

Acquisire un’attenta coscienza di sé

Le emozioni dei giovani sono in continua modifica. Si potrebbero descrivere come un vortice, a volte calmo e quieto, a volte molto agitato. Sapere come gestirlo può essere una grande risorsa, senza limitar- lo, ma accompagnandolo. Sono tanti gli interrogativi che i giovani crescendo si pongono, tra i più comuni quello di come gestire al meglio il rapporto con le altre persone. Non sempre però c’è qualcuno intorno a loro adatto a consigliarli per il meglio. Come gestire le relazioni? Le amicizie? Il rapporto con genitori, fratelli?

È corretto che i genitori si informino su come è meglio rapportarsi con i figli, ma l’impegno può essere reciproco, perché un ragazzo per quanto giovane è del tutto in grado di assumerselo se ha gli strumenti giusti. Anzi, è giusto che lo faccia, perché è fondamentale avere il prima possibile nella vita una coscienza di sé. Dall’altra parte, proprio perché questa è complicata da raggiungere, ci vuole tempo, è un lavoro che andrebbe affrontato nell’intero arco della vita.

Quando le emozioni sono tossiche

Riccardo (nome fittizio) ha 16 anni e come molte mattine arriva a scuola. È un ragazzo con buoni risultati scolastici, frequenta il secondo anno del liceo di scienze applicate. Quella mattina ha lezione con la sua insegnante di italiano e storia. Nelle materie di lei, rischia un’insufficienza con debito. Probabilmente per questa ragione Riccardo ha nel suo zaino una pistola giocattolo e un coltello più che vero. Alla richiesta della docente di interrogarlo con un suo compagno lui si rifiuta, però successivamente, mentre lei è distratta, la aggredisce con l’arma
davanti a tutti i suoi compagni. I ragazzi urlano, sono spaventati, arrivano i cara-
binieri che lo bloccano. Lo portano nel reparto di neuropsichiatria, lo tengono in carcere. La scuola lo boccia, i genitori non chiedono scusa alla professoressa ferita e fanno ricorso per la bocciatura. Questa è una storia estrema, molto dura da assimilare, di un ragazzo che ha fatto della rabbia qualcosa di incontrollabile.

Un’incoscienza di sé portata ai massimi gradi. Si potrebbe parlare a lungo dei motivi, delle responsabilità, ma non è questo l’ambito. Invece si rifletta sulla giovane vita di quel ragazzo, sul fatto che una cosa simile forse si sarebbe potuta
evitare. Il valore della cura di sé stessi e della propria emotività, del saperla controllare, è incommensurabile.

Residui del passato

I valori della nostra società, con impor tanti residui patriarcali, si può dire che non aiutino nel dare valore alla sensibilità. Un giovane o una giovane, indipendentemente dal genere, se ha la necessità di piangere per esprimere in modo salutare ciò che prova – le sue fragilità – è giusto che lo faccia. Non è normale che un ragazzo dica di non aver mai pianto, se non da bambino, perché avverte la pressione che a un maschio non si addice questo, che è da deboli.
Per un ragazzo sentirsi accolto e amato dai genitori nelle sue fragilità, prima ancora che nei suoi traguardi, è fondamentale per la sua crescita e per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva. In questo anche l’emulazione gioca un ruolo importante, come il vedere il papà o la mamma fragili che si sostengono a vicenda. Ciò instaura una dinamica sana nel raccogliere il dolore dell’altro e farne tesoro. Pure la scuola può dare un grande esempio, incoraggiare i ragazzi, dare a tutti gli strumenti necessari per comprendersi, nel possibile. Anche le dinamiche amicali acquisiscono un valore non da poco. Molti ragazzi imparano dai coetanei più abili a gestire le proprie emozioni, se non si instaura la dinamica di disprezzo della diversità e del bullismo. Ancora, non tutti sanno gestire una relazione proprio per il suo carico emotivo grande e per la sfida dei sentimenti, però si può imparare da un partner che magari abbia seguito degli esempi buoni.
In generale, affidarsi a chi offre una mano è possibile, ma per un ragazzo/a in fase di crescita può essere anche difficile. Ai ragazzi, perciò, diciamo: ascoltatevi, chiedete e fidatevi, agli adulti invece chiediamo di tendere una mano, di non aver paura di entrare nell’oscurità sconosciuta e nelle difficoltà altrui, tenendo sempre a mente il sentimento più importante: l’amore.

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