Rapa Nui, il destino di un’isola
«Esiste, in mezzo al Grande Oceano, in una regione dove non si va mai, un’isola misteriosa e remota; nessun’altra terra si trova nelle sue vicinanze e, a più di cento leghe da ogni parte, la circondano abissi vuoti e mutevoli. Quest’isola è seminata di statue alte e mostruose, opera di chissà quale razza oggi degenerata o scomparsa, e il suo passato resta un enigma. Sono approdato lì nei tempi lontani della mia prima giovinezza, su una fregata a vela, in giornate di forte vento e nuvole scure; conservo il ricordo di un paese quasi fantastico, di una terra di sogno. Sui miei quaderni di giovane allievo ufficiale della marina, avevo appuntato giorno per giorno le impressioni di allora, incongruenti e puerili. Ho tradotto qui di seguito quel diario da ragazzino cercando di dargli la precisione che gli mancava». Così scriveva nel 1899 Pierre Loti (pseudonimo di Louis Marie Julien Viaud) presentando sulla Revue de Paris il resoconto dell’esplorazione condotta nel gennaio del 1872 dalla fregata francese Flore, sua nave d’imbarco, sull’isola di Pasqua, briciola di terra distante 3600 chilometri dalle coste del Cile. L’intento? Riportare in patria uno dei suoi Moai, le enigmatiche statue che fin dall’epoca della loro scoperta hanno acceso l’immaginario di generazioni.
Prima di accennare al valore di questo testo, appena pubblicato dall’editrice romana Bordeaux col titolo L’isola di pasqua. Diario di un allievo ufficiale della “Flore”, qualche notizia sull’autore. Nato a Rochefort il 14 gennaio 1850, il giovane Viaud diventa ufficiale di marina. Viaggiare intorno al mondo gli darà modo di immergersi nelle varie culture, ispirandogli una copiosa produzione letteraria, in cui spiccano diari, corrispondenze e romanzi come Pescatore d’Islanda, il suo maggior successo. Nel 1891 viene eletto membro dell’Accademia francese al posto di Émile Zola e in contrasto con le tesi della sua scuola naturalistica. Quella di Loti è infatti un’arte aristocratica e signorile, con una visione del mondo e di chi lo abita non intellettuale ma affidata alle sensazioni. Anima inquieta dacché ha abbandonato la fede cristiana (anche se avvertirà sempre il fascino di Cristo), simpatizza per l’Islam. Una costante nelle sue pagine è l’angoscia metafisica, il sentimento che senza più un riferimento spirituale tutto vacilla e il mondo si avvia verso un futuro incerto se non addirittura spaventoso. Muore a Hendaye il 10 giugno 1923 ed è sepolto nell’isola di Oléron, dove i suoi avi avevano una proprietà.
E veniamo all’isola famosa per i suoi colossi di pietra, il cui nome indigeno è Rapa Nui. Sembra che intorno al IV secolo avanti Cristo questa terra vulcanica venisse colonizzata da alcune popolazioni polinesiane provenienti – su fragili imbarcazioni a bilanciere – da una delle isole Marchesi per necessità di sopravvivenza, e mai più ripartite da quella nuova patria, divenuta per l’eccessivo sviluppo demografico sempre più stretta e avara di risorse. Fu probabilmente a causa del suo progressivo disboscamento, cui gli isolani vennero costretti per aprire nuovi spazi alle colture, che venne a mancare il legno necessario per costruire le grandi piroghe transoceaniche.
Prima però dell’inarrestabile declino sociale ed economico, dovuto allo sfruttamento indiscriminato delle risorse locali e alle lotte sanguinose fra clan, la civiltà pasquense toccò il suo apice fra l’XI e il XVI secolo: è l’epoca dei Moai, i colossi di pietra mediante i quali si rendeva culto agli antenati, come accertato dagli studi fatti. Nella fase critica che seguì, anche tale culto venne meno, unitamente all’autorità suprema del re; e al dio Tane si sostituì Make Make, divinità guerriera, che originò un’aristocrazia militare. Molti Moai incompiuti furono abbandonati presso le cave, anche per l’assenza di legname atto al trasporto; altri vennero abbattuti, mentre si scatenavano violenti conflitti di clan e si verificavano episodi di cannibalismo.
L’ultimo e più tragico capitolo della storia di questo popolo coincise con l’arrivo, nel XVIII secolo, dei vascelli europei. La rottura di un secolare isolamento e il contatto con gli occidentali finirono in effetti per provocare in soli 150 anni la distruzione di una intera civiltà: basti pensare che nel 1862, per reclutare mano d’opera per le loro miniere di guano, i peruviani deportarono buona parte degli isolani, fra cui membri dell’aristocrazia e sacerdoti detentori delle antiche tradizioni. Di circa 1900, sopravvissero e riuscirono a ritornare in patria solo una quindicina, ma purtroppo con grave danno per i conterranei, fra i quali diffusero il germe del vaiolo. Alle epidemie seguirono lotte interne e carestie che finirono di decimare gli indigeni.
Il futuro Loti, all’epoca un ragazzo dodicenne, approda a Rapa Nui il 3 gennaio 1972 e parte il 7. L’isola in cui ha messo piede è un’oasi di desolazione, rocce vulcaniche e una vegetazione stentata, senza l’ombra di un albero: «Sono presenti solo poche dozzine di selvaggi», scrive nel suo diario, e la sua popolazione «si estingue a poco a poco per cause sconosciute». Pur nel breve soggiorno, spinto da una vivissima sete di conoscenza, l’allievo ufficiale cerca di avvicinare con rispetto gli isolani, di farseli amici, arrivando alla conclusione «che sono proprio i civilizzati che hanno fatto prova, nei confronti dei selvaggi, di una selvaggeria ignobile». Tuttavia proprio lui, al momento di ripartire, si rende conto di aver mancato nei confronti del vecchio capo, al quale ha regalato abiti occidentali ricevendo da lui un idoletto di pietra: «Vedendolo così ridicolo e penoso con la redingote da ammiraglio da cui vengono fuori due lunghe gambe tatuate, ho la sensazione di avergli mancato di rispetto facendo quello scambio, di essermi reso, nei suoi confronti, colpevole di lesa selvaggeria».
Corredato dai suoi disegni dei Moai, il diario di Loti è la prima testimonianza letteraria sull’isola di Pasqua e sui suoi abitanti, ben diversa dai resoconti di chi, in precedenza, aveva semplicemente classificato quel remoto lembo di terra in mezzo all’Oceano Pacifico come troppo brullo per ospitare allevamenti e troppo frastagliato e pericoloso lungo la costa per fungere da scalo alle flotte mercantili.
Oggi il fascino e l’interesse dell’isola non consistono più, o non solo, nei suoi tipici monumenti – i Moai, gli altari cerimoniali e le incisioni rupestri –, ma nel fatto che essa rappresenta, in piccolo, un esempio dei pericoli che potrebbe correre l’umanità in seguito a un eccessivo incremento della popolazione e ad un dissennato sfruttamento delle risorse della Terra. Isolati come siamo nel cosmo, non disponiamo di risorse inesauribili, ma abbiamo conoscenza e tecnologia per assicurare un futuro all’umanità che verrà: purché saggezza e lungimiranza guidino le nostre scelte, e costante sia la ricerca di un equilibrato rapporto con la natura. È il monito inviatoci da Rapa Nui.