Rai in caduta libera
Programmi scadenti, approfondimenti faziosi, film violenti, come una tivù commerciale. L'agonia del servizio pubblico, ostaggio dei partiti, mentre vengono tenuti lontano pubblico e società civile.
Era un simpatico passatempo il “se fosse”. Ma provate ad applicarlo oggi alla Rai. Altro che gioco divertente. Se la tv di Stato fosse infatti un animale, giammai sarebbe il potente cavallo alato che presidia fiero il centro di produzione di Saxa Rubra. Piuttosto avrebbe le sembianze dell’impalpabile farfallina, piazzata di recente al lato del teleschermo.
Da qualche tempo Mamma Rai si guarda allo specchio, si spaventa delle rughe e non si riconosce più. Era lei una volta, in regime di monopolio, a prendersi cura, crescere, alfabetizzare ed educare gli italiani che da figli ossequiosi (tirati su a mulini del Po – i mitici sceneggiati – e caroselli) consideravano la tv di tutti, una maestra autorevole e austera, per di più con una certa aura mitologica.
Fratelli d’Italia che al contrario si sentono oggi un po’ orfani, abbandonati al proprio destino da una madre catodica che non assolve più i suoi compiti perché fragile e triste come una crisalide che stenti a divenire farfalla.
Per alcuni in verità è ancora lei, la Rai, la prima azienda culturale del Paese. I numeri lo proverebbero. Duemila giornalisti, più di ottomila impiegati, tredicimila dipendenti in tutto, ottomila più di Mediaset. Un esercito al servizio dell’informazione e dell’intrattenimento.
Ma poi basta accendere la tv la sera (quando i famosi vanno sull’isola) o al pomeriggio (quando la vita è in diretta), per vedere messa in dubbio quella pomposa definizione di “servizio” che sa di naftalina come il cappotto della nonna custodito nell’armadio in soffitta.
Si produce cultura discutendo per ore della questione cruciale: tra la velina e l’attore di Hollywood è amore vero o semplice flirt estivo? Oppure accapigliandosi per giorni su un’altra faccenda, altrettanto fondamentale: «Lui è gay oppure no?». Ma soprattutto: si fa davvero servizio pubblico proponendo film violenti, producendo programmi banali, mandando in onda talk show faziosi, proponendo reality scadenti?
Domande che molti oggi si fanno, dandosi poi, alla Marzullo, una risposta scontata: no, questa non può essere certo la missione della Rai.
Servizio essenziale?
«La tv intesa come bene comune di importanza nazionale»,ha ricordato di recente Aldo Grasso sul Corriere della Sera, va considerata un servizio essenziale «al pari della luce, del gas, dei trasporti».Pagata con i soldi di tutti, la Rai dovrebbe restituire ai cittadini un servizio efficiente, di qualità, commisurato alla tassa corrisposta. Giusto! Ma nel Paese degli ospedali al collasso, dei disastri ferroviari e dei mezzi pubblici carenti non si vede poi perché l’azienda radiotelevisiva dovrebbe essere in controtendenza.
Come molte delle società pubbliche, la Rai ha infatti un bilancio in profondo rosso e paga l’eccessiva influenza della politica. Una casta che, prendendosi già la licenza di decidere chi debba fare il primario in un ospedale e chi il direttore di una Asl, a maggior ragione si sente in diritto di scegliere chi dovrà guidare i telegiornali e chi le reti. Indipendentemente dalle capacità e dal curriculum.
Malgrado l’abnegazione e il talento dei tanti dipendenti (e dei moltissimi precari) che tutti i giorni fanno il loro dovere, ben altro servirebbe oggi alla Rai.
Prendete il settore cruciale dell’informazione. Per Aldo Grasso, dovrebbe «assicurare il pluralismo e, possibilmente, l’obiettività, prendere le distanze dal potere politico, nell’elogio e nella critica, garantire la rappresentanza delle minoranze. La strada è una sola: quella dell’autorevolezza. Il direttore generale, i direttori delle reti e dei tg non dovrebbero più essere scelti in base alla loro appartenenza politica ma alla correttezza professionale».
Reti e tg lottizzati
Magari diventasse realtà. Il fatto è che i politici accusano di eccessiva partigianeria taluni giornalisti e c’è chi ha invocato la chiusura di un programma come Annozero per alto tradimento del servizio pubblico. Ma a parte che un’azienda di tutti dovrebbe creare nuovi spazi (magari affidandoli ai suonatori dell’altra campana) piuttosto che chiudere quelli già esistenti, quale sarebbe poi il pulpito dal quale la predica arriva?
I partiti decidono da sempre i destini della Rai. Un controllo a tal punto invadente che tutte le più serie riforme della Rai, proposte dalla società civile, partono sempre da un punto: cacciare i partiti dalla gestione della tv di Stato. Una richiesta che spiega già da sola perché poi la Rai sia rimasta negli anni così com’è: in Parlamento nessuno è realmente interessato a cambiarla, tutti hanno bisogno di mantenere un qualche potere di condizionamento sull’azienda.
La Rai, è vero, ci ha messo del suo. Ha cercato ascolti a scapito della qualità; ha quasi solo acquistato programmi invece di crearli; ha rincorso la concorrenza al punto che il pubblico non è più distinguibile dal privato; ben poco si è rinnovata e ancora meno ha aperto le porte alle giovani leve.
Canone e qualità
Alla fine l’elenco delle trasmissioni che, all’unanimità, verrebbero oggi considerati “puro servizio pubblico”, si contano sulle dita di una mano. Lì dove una volta brillavano programmi per ragazzi, inchieste, produzioni di qualità e grandi documentari, oggi imperano spesso vuote chiacchiere, facile volgarità, allarmante sciatteria.
Al punto che, di recente, alcuni giornali e partiti politici hanno avviato una campagna per spingere i cittadini a non pagare più il canone, la tassa con la quale la Rai per metà si finanzia. Campagna ovviamente di gran successo come tutte quelle che invitano ad abolire balzelli ritenuti iniqui.
Ma come già per ospedali e infrastrutture, la battaglia dovrebbe essere un’altra, il suo contrario. Per ottenere un miglior servizio pubblico bisognerebbe spingere a pagare i molti furbi che non lo fanno e non far desistere i pochi che assolvono già il proprio dovere. Mentre infatti la media europea dell’evasione si attesta tra il tre e il cinque cento, da noi siamo intorno al 25-30 per cento. In Italia (dove la tassa sulla tv non è neanche tra le più care d’Europa) uno su tre non la paga e in pratica sei milioni di famiglie su ventidue guardano da anni a sbafo la tv pubblica. Magari criticandola pure.
L’evasione di massa toglie ai bilanci Rai almeno 400 milioni l’anno, e c’è chi a questo punto ha ipotizzato l’inserimento del canone nella bolletta dell’energia elettrica, come già sperimentato in Grecia.
Con l’arguzia che lo contraddistingue, Massimo Gramellini ha proposto di introdurre il canone pay per view, mettendo mano al portafogli solo per quel che si guarda. «Adesso io pago il balzello in un colpo solo –ragiona ironico l’editorialista de La Stampa –, poi me ne dimentico e per un anno intero mi sorbisco le peggio sconcezze con l’atteggiamento tollerante di chi sta ricevendo qualcosa gratis. Immaginiamo invece che ogni trasmissione mi costi, anche solo cinque centesimi. Sarei curioso di vedere quanti di noi li investirebbero ancora in certi spettacoli della mutua».
Mettere la Rai al passo
Gioca Gramellini sulla nostra taccagneria, ma non scherza affatto sul ruolo sempre più attivo che dovrà assumere il telespettatore per spingere la Rai a cambiare. Oltre a quello determinante di chi vi lavora, un contributo per renderla migliore può infatti darlo anche chi della tv pubblica è solo un utente. Cittadini che, come già reclamano per gli autobus in ritardo e le buche nel vicolo, possono far sentire la propria voce per un programma non gradito o un film di cattivo gusto. Lettere ai giornali e mail di singoli, petizioni e raccolte di firme da parte di gruppi sono piccole gocce che possono però scavare grossi dubbi (e talvolta repentini ripensamenti) nella coscienza di chi la tv la fa.
Dubbi che continueranno forse ad evaporare finché sarà l’Auditel a determinare le carriere. Ma che diventeranno invece macigni se l’indice di gradimento (magari per merito di una opinione pubblica più pugnace) sarà finalmente preso ad unità di misura per valutare la bontà di un programma.
In attesa di tempi migliori, dà speranza la presenza di Sergio Zavoli al vertice della Commissione di vigilanza. La sua saggezza unita all’esperienza, nel breve periodo, potrebbero aiutare la Rai a ritrovare il senso della sua vera missione. Un obiettivo che sarà più rapidamente raggiunto se l’azienda di viale Mazzini comincerà sempre più ad aprirsi alla società civile, magari riservando qualche posto nel consiglio di amministrazione a rappresentanti di qualificate associazioni. Se tutto questo accadesse davvero, il cavallo di Saxa Rubra riprenderebbe d’incanto il volo. E anche la farfallina ricomincerebbe a volteggiare leggiadra nell’etere.
Gianni Di Bari
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Nel prossimo numero di Città nuova, descrivendo i servizi radiotelevisivi pubblici di alcuni Paesi occidentali, metteremo in luce come la situazione italiana sia tra le più complesse al mondo. Gianni Di Bari evidenzia, nell’articolo qui accanto, il decadimento del servizio pubblico dovuto all’ingerenza dei partiti nella Rai.
Ma non bisogna dimenticare che, di fatto – era il 1990 e a capo del governo c’era Giulio Andreotti –, dalla Legge Mammì in poi, legge chiamata anche “Polaroid” perché di fatto legittimava la situazione che allora vigeva, Fininvest-Mediaset e Rai hanno introdotto in Italia un duopolio che ha finito per pregiudicare la qualità del servizio radiotelevisivo globale.
Con l’ascesa al governo di Berlusconi, proprietario di Fininvest-Mediaset, s’è introdotto un ulteriore elemento di perturbazione ad una “sana concorrenza”: il conflitto di interessi, innegabile, che influenza ancora – vedi le recenti polemiche sul pagamento del canone Rai – il nostro servizio pubblico. Una legge che regoli il conflitto di interessi andrebbe a vantaggio non solo della Rai, ma anche di tutto il settore radiotelevisivo privato.
P.P.
LA PAROLA AI LETTORI
Va pagato il canone Rai?
Scrivete a: segr.rivista@cittanuova.it con oggetto “Servizio pubblico” o all’indirizzo postale.