Raggiunta dalla serenità
Papà, vieni a vedere come mi sta questa giacca!. Dalla saletta d’ingresso il richiamo di Antonio, appena rientrato da un giro di spese con la fidanzata Samantha, interrompe il mio colloquio con Carlo. L’amico frena la commozione che l’ha invaso, parlandomi di sua moglie, per dedicarsi al figlio diciassettenne… Dalla cucina li sento parlare, percepisco i consigli di Carlo, e intanto lo sguardo vaga intorno. Tutto qui rispecchia un ordine e una cura che verrebbe da attribuire ad una mano femminile: senonché a mancare è proprio la padrona di casa,Marisa, portata via mesi fa da una forma acuta di linfoma. Ma è proprio vero che stiamo parlando di una assente? Siamo nel cuore di Portici, sulle pendici del Vesuvio, dai Vetrano: Carlo, funzionario alla Provincia di Napoli dove si occupa di tutela dell’ambiente, e i figli Antonio e Daniela, 12 anni e mezzo. Ora il padre è tornato, per riprendere il filo del suo racconto dove l’ha interrotto. Verso la fine degli anni Settanta – già eravamo fidanzati – Marisa ed io siamo rimasti affascinati dall’ideale dell’unità, frequentando la locale comunità dei Focolari: una realtà dove respiravamo un clima di vera famiglia, dove avvertivamo Cristo presente. E a lui, fonte dell’amore, abbiamo attinto anche per costruire la nostra vita in comune. Sposati, sono arrivati i figli. Una famiglia normale, la loro, aperta. Con problemi ordinari. Almeno fino al sopraggiungere di un imprevisto che l’avrebbe brutalmente sconvolta dal 1997 al 2004. È stato quando mi sono trovato coinvolto in una vicenda giudiziaria, legata al mio lavoro di allora (controllavo lo smaltimento rifiuti). L’accusa: tentata concussione e abuso d’ufficio. Essere indagato dalla Divisione antimafia per presunte mie connivenze con la camorra, sentirmi addosso gli occhi della gente, dei colleghi specialmente, messo alla berlina sui giornali, col telefono sotto controllo e l’incubo delle visite notturne dei carabinieri, mi stava distruggendo . In quel lungo travaglio il coraggio per andare avanti gli è venuto dalla famiglia naturale e da quella spirituale del movimento. Da quella prova però – riconosce Carlo – ne è uscito rinsaldato il nostro rapporto di coppia, che per la verità aveva conosciuto fasi anche difficili, tanto eravamo diversi per carattere, educazione, abitudini, esperienze (ma proprio questa diversità diventava uno stimolo per cercarci). Marisa mi era vicina alla sua maniera: oltre all’amore concreto, delicato e silenzioso che l’ha resa amabile a molti, avvertivo la stima, l’assoluta certezza della mia innocenza: proprio ciò di cui aveva bisogno uno nel mio stato d’animo. La bufera è passata, e attualmente i veri colpevoli scontano la loro pena. Quasi due anni di tregua, per i Vetrano; poi l’annuncio improvviso della malattia di lei. Ora toccava al marito farsi sostegno alla moglie. Com’era Marisa? Carlo me la descrive come una persona solare, gioiosa, piena di vitalità. Aveva la capacità di cogliere subito l’essenziale, l’anima delle persone al di là delle parole stesse… forse perché aveva molto sofferto nella sua adolescenza a causa della lunga malattia – la leucemia – del fratello, morto poi a 22 anni. Risaliva ad allora il suo difficile rapporto con medici e medicine che la portava a scansare il più possibile anche un controllo ordinario. Quella volta però, accusando da qualche tempo un senso acuto di spossatezza, e pressata dalle mie insistenze, s’era convinta finalmente a farsi visitare. E le analisi hanno evidenziato un tasso di emoglobi- na molto basso, che ha consigliato il ricovero il 4 aprile 2006. Una volta saputa la diagnosi, lei si è affidata completamente ai medici e, ne sono certo, soprattutto a Dio. Questo mettersi nelle mani altrui era un’esperienza nuova per lei, abituata ad avere sempre il controllo della situazione. Durante quel periodo, accanto alle sofferenze fisiche e morali non sono mancate fasi di buio spirituale. Era come un combattimento interiore che a volte portava Marisa a reagire alla malattia, a volte invece la vedeva quasi arresa, sfinita dalle chemio. Nei cinque mesi che le restavano da vivere il nostro rapporto si è ulteriormente affinato. È stato un percorso molto intimo: non ci scambiavamo tanto parole quanto sguardi, strette di mano. Era il nostro modo di comunicare, tanto più che lei era in terapia intensiva, con tutte le limitazioni del caso. E i suoi sguardi, al di là di ciò che soffriva, esprimevano un amore sempre più puro e intenso. Per la verità, i medici davano speranza: di linfoma di Hogking si può guarire, a patto però che il fisico reagisca. Purtroppo l’inappetenza, nonostante lo sforzo di fare la propria parte per amore di Carlo e dei figli, contribuiva a debilitare l’ammalata. Quanto ai ragazzi, fin dall’inizio il papà ha cercato di non nascondere nulla loro: Certo, ognuno secondo ciò che poteva recepire, senza angosciarli. Negli ultimi tempi Marisa sembrava aver superato quella prova spirituale, finalmente raggiunta dalla serenità. Era una pace profonda, di tutto l’essere, che si comunicava a quanti l’avvicinavano. Colpivano quegli occhi enormi sul viso smagrito che ti guardavano con una dolcezza infinita. Anche il dolore intimo per il fratello morto, che per tanto tempo l’aveva accompagnata, si era come sciolto. Pregando (e quanto intensa la preghiera di quel periodo!), avevo chiesto per Marisa ciò che era bene per lei. Anche se questo bene non avesse contemplato la salute: sì, mi sforzavo di aderire alla volontà di Dio come si sarebbe manifestata… E quando ho visto quel suo sguardo finalmente pacificato, ho capito: la grazia c’era stata, ed era quella. Negli ultimi momenti resi drammatici da una sopraggiunta crisi respiratoria, Carlo l’assisteva ripetendole: Marisa, non te ne andare…. E lei: No, non me ne vado…. Come a suggellare una presenza, quella di Gesù fra loro, che non avrebbe avuto più fine. Durante il funerale, al vedere la chiesa insolitamente affollata da persone dei più vari ceti sociali, qualcuno si è chiesto come facesse Marisa a conoscere così tanta gente. Erano frutto, evidentemente, di rapporti personali costruiti giorno per giorno con negozianti, vicini di casa, genitori degli amici dei figli… Sì,Marisa col suo modo di fare, col suo mettersi al servizio degli altri, ha costruito – come diceva – il suo pezzetto di mondo unito nel proprio ambiente, e ciò non è passato inosservato ma ha avuto un ritorno. In ufficio – ricorda Carlo riguardo al difficile dopo – un collega aveva tentato di consolarmi: Sai, il tempo lenirà, bisogna aver pazienza…. Quella sera però, a casa, quasi con rabbia mi sono rivolto a Dio: Ma io non voglio aspettare il tempo. Dov’è la grazia del sacramento? Tu devi farmela sentire, non è possibile che un legame come il nostro si spezzi, deve continuare!. Non so come esprimerlo, ma il giorno dopo ho avvertito con l’anima Marisa così vicina che m’è uscito spontaneo: Io ti ritroverò in Dio. E subito dopo, chiedermi se non era strumentalizzare il rapporto con lui… Questo dubbio mi si è sciolto quando poi in un testo sulla vedovanza, scoperto su Internet, ho letto: La volontà del coniuge defunto s’identifica con quella di Dio; il suo amore per il coniuge rimasto sulla terra è quello stesso di Dio, e non va con- siderato come un assente: è invece vivente e presente come e insieme allo stesso Cristo. La persona vedova deve cercare anche nel coniuge defunto aiuto e sostegno nell’educazione dei figli, nelle scelte da fare…: parole scese in me come un balsamo. E a proposito dei figli: In ogni coppia si raggiunge, anche se non dichiarato, un certo equilibrio di ruoli. Ora per me s’è trattato di acquisire quella parte materna venuta a mancare, ma senza perdere la figura paterna. Ovviamente, questo non esclude certi momenti duri, in cui avverto maggiormente il bisogno di un confronto con lei. Con i ragazzi sono stato esplicito: non potremo più rivolgerci a mamma come prima per vedere insieme le cose d’ogni giorno, dovremo abituarci a cercare questa presenza su un altro livello. È evidente che per loro, così giovani, la mancanza si fa sentire con più forza. Anche se ognuno poi la risolve in modo diverso. A differenza di Antonio, infatti, che ha sublimato il disagio con la poesia, dedicando versi alla mamma, Daniela teneva tutto chiuso in sé e in certi periodi reagiva comportandosi in maniera fin troppo esuberante. Ora però credo che abbia interiorizzato questa perdita: non la sfugge, sta diventando parte di lei. Un fatto incoraggiante è che gli insegnanti non hanno rilevato in nessuno dei due un calo nel profitto, cosa che avviene normalmente per chi ha perso un genitore. Il nostro matrimonio non è stato interrotto – conclude il suo racconto Carlo -: con Marisa posso parlare, esprimere le mie difficoltà, quelle con i ragazzi. Io veramente non sento il vuoto, l’assenza, se non a livello umano, ma a livello d’anima avverto una sempre maggiore pienezza.