Ragazzi perché vi fermate?

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Maglietta e pantaloncini sotto la tuta, scarpe da ginnastica: “Perché vai a scuola conciato a quel modo?”. “Oggi, a scuola, c’è il torneo di basket”. “Ma tu hai mai giocato?”. “No!”. Lorenzo ha dodici anni e frequenta la seconda media. Il suo primo ed unico approccio al basket finirà fra poche ore: eliminati dal torneo. Se ne parlerà l’anno prossimo. Ma quale apprendimento sportivo gli è stato offerto? Le statistiche ci sconfortano: solo due ore settimanali di educazione fisica scolastica, nemmeno una nella primaria e nella materna; due ragazzi italiani su tre insufficienti nei test di resistenza proposti per le scuole europee; un terzo dei bambini delle elementari obeso o in soprappeso; a 14 anni abbandono della pratica sportiva. Che spazio c’è per l’attività fisica di fronte alle nuove offerte di svago dominate dai videogiochi? Le società sportive sanno ancora attirare i ragazzi? Insomma quale cultura dello sport abbiamo nel nostro paese? Per tentare di rispondere a queste domande abbiamo bussato alle porte degli interlocutori più accreditati, a quelli che l’attività fisica la propongono per capire quanto consenso trovano nelle nuove generazioni: ministero dell’Istruzione, Comitato olimpico nazionale italiano, enti di promozione sportiva. Ecco le risposte che ne abbiamo ricavato. Laureati dello sport “La scuola – precisa Giuseppe Cammareri, nuovo direttore generale per le attività motorie del ministero dell’Istruzione – non lavora per le medaglie olimpiche, ma per far crescere il bagaglio di esperienza motoria di ogni soggetto”. Proprio su questo la scuola italiana è sotto accusa: “Le famiglie non hanno nulla da temere – assicura Cammareri -: le due ore settimanali di educazione fisica scolastica non subiranno contrazioni, ma non ne è previsto un incremento, né una loro estensione alla materna o alla primaria. L’autonomia degli istituti porterà ad una valorizzazione delle sei ore settimanali integrative previste per l’avviamento allo sport, anche attraverso l’istituzione di gruppi sportivi scolastici. Essa do- vrebbe avvicinare maggiormente alla gestione scolastica coloro che ne sono i fruitori: le famiglie”. La promozione dell’attività fisica scolastica richiede strutture, possibilità concreta di accesso alle discipline sportive e competenza: in tal senso ben venga l’ampliamento delle opzioni, anche se i corsi di aggiornamento sulla vela o sul bridge, previsti per i docenti, lasciano perplessi: “Fino ad oggi gli insegnanti erano dei diplomati dell’Istituto superiore di educazione fisica, ma proprio in questi giorni, dall’università, sono usciti i primi docenti laureati in Scienze motorie – precisa Cammareri -: è una tappa importante che qualificherà il contributo della scuola alla crescita integrale degli studenti”. L’Europa ci interpella Quale risposta abbiamo dato alla dichiarazione di Nizza sullo sport del ’99, che ne sottolinea il valore sociale e ne rivendica l’accesso a tutti? “Sono in crescita le attività che meno vincolano i partecipanti – ci spiega Nicola Porro, sociologo dell’Università di Cassino e presidente dell’Uisp, uno dei maggiori enti di promozione sportiva in Italia -: sempre più gente cambia specialità seguendo gusti, mode, opportunità. Un processo che mette in difficoltà le federazioni agonistiche, ma che espande i confini potenziali dello sport per tutti. Il calo progressivo di praticanti a partire dai preadolescenti, avviene nel momento in cui le scelte dei ragazzi si svincolano da quelle imposte dai genitori: subentra l’interesse per altre cose, ma evidentemente non si divertono più, esclusi forse anche dalla selezione precoce e dagli allenamenti sempre più impegnativi imposti dalle società giovanili. Queste ricevono contributi dalle federazioni in funzione del produrre talenti, dimenticando che l’età della crescita va consacrata al gioco, come metodologia di apprendimento, di socializzazione. I tradizionali Giochi della Gioventù sono finiti perché in realtà, dei due milioni di partecipanti dichiarati, la gran parte aveva partecipato una ed una sola volta ad una sfi- da dentro il proprio istituto, unico incontro con quella disciplina”. Fare sport senza tessera A definire ancor meglio i contorni del ruolo sociale dello sport sono i dati del censimento Istat sulle istituzioni e imprese non profit, che comprendono l’associazionismo sportivo. “Le attività preponderanti del terzo settore – chiarisce ancora Porro – sono quelle dell’ambito sport, cultura e ricreazione con oltre 140 mila associazioni (su 220 mila) a conferma che il no profit sportivo è sempre più impresa e sempre meno terminale di elargizioni statali. Non è lo stadio, sono i marciapiedi, i punti verdi, le espressioni di una cultura che da riconoscimento ai milioni di persone che fanno sport per ricrearsi, non per primeggiare. In sociologia si chiama principio della soddisfazione immediata: mi piace ora e mi fa bene per dopo. Prende il posto della soddisfazione differita, che è dello sport agonistico: mi alleno perché fra otto anni gareggerò alle Olimpiadi”. L’Uisp si dedica al continente sommerso di chi fa sport: tutto ciò non ha una adeguata rappresentanza. “Non si tratta di dare una tessera a chi non ce l’ha e non la vuole. Da noi trovano sport organizzato ma, a differenza di quello ufficiale, cambiamo le regole per adattarlo alle diverse categorie ed età. Non sono i cittadini a doversi adattare, ma è lo sport che si adatta ai cittadini, che si mette al loro servizio: di qui la nostra richiesta di autonomia rispetto allo sport-istituzione”. Il ruolo del Coni Il richiamo è al Coni che, con le sue federazioni, per decenni si è fatto carico non solo della preparazione olimpica, ma anche di altre competenze fra cui quella fondamentale della promozione sportiva, un ruolo ed un potere da vero e proprio “ministero dello sport”, una felice, ma oggi discussa, anomalia in campo europeo. In Inghilterra il comitato olimpico non ha competenze pubbliche e la ge- stione dell’attività fisica scolastica è affidata agli enti locali. Nei paesi scandinavi lo sport per tutti è promosso da agenzie pubbliche finanziate dallo stato, autonome dallo sport agonistico. La Francia è l’unico paese (con Lussemburgo e Turchia) a disporre di un ministero dello sport che gestisce l’attività pubblica del settore, coadiuvato da quattro autonomi collegi nazionali: sport olimpico, sport per tutti, scuola e sistema formativo, forze armate). In Germania ed in Spagna sono le autonomie locali a gestire il settore grazie a considerevoli risorse finanziarie: la rete associazionistica, il volontariato e lo sport olimpico sono coordinati da un consiglio nazionale. Il ruolo del Coni sembra oggi messo in discussione dai bilanci in rosso, dal ridotto numero di giovani praticanti, dalle accuse di aver spinto troppo verso l’agonismo precoce. “I Giochi della gioventù – ricorda Vincenzo Romano, dirigente generale del Coni per l’area promozione – storicamente hanno rappresentato i primi passi di integrazione col mondo della scuola: vi hanno partecipato una enorme quantità di ragazzi e fra questi anche alcuni di quelli che poi avrebbero vinto delle medaglie olimpiche. Forse abbiamo un po’ privilegiato l’avviamento precoce all’agonismo, ma sul valore della competitività, con se stessi e con gli altri, occorre tenere conto della naturale tendenza dei ragazzi in questo senso, che lo sport ha il potere di saper incanalare”. Quali sono oggi i vostri rapporti con il mondo della scuola? “Non ci interessa allargare la base dei praticanti nelle scuole per avere in futuro più medaglie, né per poterci vantare di aver promosso belle manifestazioni, quanto piuttosto perché nella scuola vi sia una partecipazione continuativa e soprattutto alla portata di tutti. I dati sull’abbandono precoce dell’attività fisica, una volta che i ragazzi non sono più sotto il controllo dei genitori, ci sconfortano”. Il governo ha fatto fronte, temporaneamente, alla crisi economica del Coni con un finanziamento straordinario di 103 milioni di euro: un contributo tampone ricavato in modo alquanto originale da un provvedimen- to “omnibus” sul riscaldamento, un segno chiaro di quanto non esista una cultura dello sport nel nostro paese. Le significative restrizioni di spese gestionali e la sensibile riduzione dei contributi alle federazioni non incideranno sulla promozione? “Per fortuna è considerevole il numero delle società sportive in Italia, un fenomeno unico al mondo, fondato su un volontariato sempre più qualificato: la crescita dei praticanti indica un incremento della cultura sportiva e porta finanziamenti a queste società anche da parte degli enti locali. Paradossalmente, pur nella contrazione dei bilanci, in questi anni i successi sportivi delle federazioni sono continuati”. Ai 14 enti di promozione sportiva, a riconoscimento del valore sociale dello sport da loro promosso, sono andati, nel 2001, circa 31 miliardi di lire tra Coni (21) e governo (10): quest’anno il Coni ne darà 16 ed il governo nessuno, nonostante contino anch’essi 3.500.000 di tesserati. Come potranno sopravvivere? “Occorre verificare se alle tessere corrisponde un numero reale di praticanti, specie se a questi numeri si vincola un contributo finanziario. Alcuni si sono mossi per offrire possibilità di attività motoria a soggetti disagiati, categorie importanti, che hanno diritto allo sport, ma non rappresentano i tutti”. Educare con lo sport Il Csi, Centro sportivo italiano, è storicamente un simbolo della promozione sportiva. Legato inizialmente alle parrocchie si è sempre distinto per la visione di profilo alto attribuita all’attività motoria. “Lo sport – ci spiega Edio Costantini che ne è il presidente -, in un momento di crisi delle tradizionali agenzie educative, può diventare l’elemento che innesca un cammino e risponde alla ricerca di benessere, non solo fisico, ma anche sociale, psicologico, emozionale, aperto alla trascendenza, un benessere in tutte le sue componenti, in cui la persona davvero sta bene. Il nostro impegno è quello di ridare forza alle società sportive, il luogo tradizionale in cui è cresciuto ed è stato promosso lo sport in Italia, in modo che esse recuperino questo ruolo sociale, non un ruolo relegato all’ottenere un risultato”. Un processo che costa fatica ed impegno… “A questo supplisce l’esercito di volontari, ma per fare un’attività continuativa, organizzata, non basta un impegno motivato: occorre, a tempo pieno, gente competente. Lo sport di base ha bisogno dello sport di vertice per essere finanziato, e lo sport di vertice non può vivere senza lo sport di base che lo promuove”. Lo sport, nella sua valenza sociale chiama in causa la sanità come la scuola, la cultura come la sicurezza sociale: “L’attività sportiva – chiarisce Costantini – non può essere invocata come prevenzione di tutti mali e poi di fatto non vedere riconosciuto il suo valore da una legge che ne tuteli il valore sociale e lo finanzi. Fino a quando non consideriamo lo sport una cosa seria fra le cose serie per la promozione dell’uomo non faremo alcun passo avanti”. Chissà che il futuro non sia in alcuni progetti, oggi ancora isolati, ma concreti e interessanti, che sembrano saper suscitare fra i ragazzi un nuovo interesse allo sport. Come quello di avvio all’attività motoria nelle elementari promosso a Ravenna d’intesa fra Coni, provveditorato e comune, che ha affidato alla medaglia d’oro olimpica Josefa Idem l’assessorato allo sport. O come quello voluto dai salesiani che a Genova hanno attivato il primo liceo scientifico con indirizzo sportivo, sommerso da richieste da tutta Italia.

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