Ragazzi di strada, maestri di vita

Suor Loreta Beccia, Missionaria Comboniana, italiana, racconta il suo vissuto di “stare con” e di accompagnare i ragazzi di strada in un quartiere della capitale camerunese.
Sr. Loreta con i ragazzi di strada al centro Edimar di Yaoundé, in Camerun. Foto: Liliane Mugombozi.

Il fenomeno dei bambini di strada, emerso per la prima volta in Africa all’inizio degli anni ’80, è oggi un fenomeno mondiale, e interessa la maggior parte delle grandi città del nord e del sud del continente. In Africa centrale il fenomeno è particolarmente acuto a Douala e a Kinshasa, dove si contano migliaia di bambini di strada.

Yaoundé, capitale del Camerun, non era il tipo di missione che suor Loreta Beccia si aspettava come Missionaria Comboniana: «Il nostro fondatore ci dice che siamo chiamati a stare con gli ultimi e i più abbandonati, i più poveri, e mi chiedevo dove potessi trovarli in una capitale come questa».

Poi i poveri li ha trovati a 200 metri da casa in un centro per ragazzi di strada che si chiama “Edimar”, vicino alla Gare centrale de Yaoundé, la stazione ferroviaria situata nel centro della capitale camerunese. Il centro porta il nome di un ragazzino brasiliano: anche lui viveva per strada ma «quando ha trovato qualcuno disponibile a tendergli la mano per ridargli la sua dignità di persona e rimetterlo in piedi, ha cambiato vita, non solo la sua, ma anche quella di chi gli ha teso questa mano, perché, come sempre, c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

Sono giovanissimi i ragazzi che si avvicinano al centro Edimar, hanno dai 12 anni in su, e trovano ad aspettarli un pezzo di sapone e un po’ d’acqua per lavarsi e lavare i loro abiti, sempre sporchissimi, perché la maggior parte di loro lavora al mercato scaricando e caricando pesanti sacchi di merce e «guadagnandosi spesso delle belle ferite che poi al centro cerchiamo di curare». Chiaramente non sono solo «quelle le ferite che cerchiamo di curare. Questi ragazzi soffrono soprattutto di ferite del cuore, ferite causate da famiglie lontane, da traumi, abusi e soprusi vissuti sia in famiglia che per strada».

Cosa fate per curare queste ferite?
Stando con loro, essendo presenza in un mondo fatto di assenza e di solitudine. Stiamo lì per e con loro, e ognuno di loro lo sente, lo sa, ecco perché giorno dopo giorno ritorna al centro, a volte ci anticipa e ci attende, a volte ritarda perché si sa atteso, in quel concetto di attesa così straordinariamente descritto da don Tonino Bello: Mettiamoci in attesa, perché se non attendiamo più, siamo morti. Vivere è attendere. E attendere è l’infinito del verbo amare.

Il centro apre le porte tutti i giorni dalle 10 fino alle 17. Che attività proponete?
Insieme ai volontari e a chi lavora nel centro cerchiamo di mettere in circolo l’amore offrendo, a parte la nostra presenza, qualche attività. Tutti i pomeriggi c’è la scuola, ci si divide in gruppi in base alle conoscenze che abbiamo: per esempio, quanto si divertono a giocare alla tombola matematica! L’abbiamo inventata con e per loro, per insegnargli a fare i conti: invece di dire direttamente il numero estratto, questo risulterà da una somma, una moltiplicazione, una divisione o una sottrazione.

O che divertimento imparare la geografia partendo dai calciatori, dalle squadre, dalle nazionalità dei giocatori! E così la capitale della Spagna diventa Real Madrid, e il Portogallo il Paese dove è nato Ronaldo. Poi ci sono le lezioni di francese, a volte ci prendiamo un pomeriggio artistico che mi riempie sempre di tanta tenerezza: vederli davanti ad un foglio bianco e con dei pastelli colorati fra le mani è un’immagine sconvolgente, ragazzoni che caricano sacchi pesanti, che vivono e dormono per strada, davanti ad un foglio da colorare diventano come bambini: se non diventerete come bambini, non entrerete… dice il Vangelo. Momenti che gli permettono di vivere quell’infanzia che è stata loro negata.

Sr. Loreta con i ragazzi di strada al centro Edimar di Yaoundé, in Camerun. Foto: Liliane Mugombozi.

Cosa significa stare con loro?
Mi piace dire che con loro mi sento a casa, nonostante quello che tutti attorno a noi pensano di questi ragazzi: banditi, ladri, persone pericolose. Io mi sento al sicuro perché so che non mi farebbero mai del male. Per loro non sono né suor Loreta, né la blanche (la bianca) – come spesso mi sento chiamare qui in città – sono semplicemente Loreta, o a volte maman Loreta, appellativo che mi ricorda la vocazione a cui il Signore mi ha chiamata, essere madre – il nome originale della mia Congregazione è Pie Madri della Nigrizia!

Con loro imparo sempre qualcosa di nuovo e di bello: l’importanza della vita nel suo senso più profondo in quel miscuglio di gioie e dolori, sorrisi e lacrime che ci fa essere ciò che siamo. Il valore della preghiera, per esempio. Fra loro ci sono ragazzi di diverse confessioni cristiane, musulmani, di religioni tradizionali, ed è d’esempio e di stimolo per me vedere ragazzini di 12 anni alzarsi dai banchi della nostra scuola di strada per raggiungere la moschea e andare a pregare. Prima di uscire però mi dicono: aspettaci che torniamo in fretta! E pensare che a volte io faccio fatica ad andare nella cappella che abbiamo in casa a due passi dalla mia stanza.

Che cosa rappresentano questi incontri con i ragazzi?
Con loro ogni giorno capisco un po’ di più il senso della mia vocazione e della mia vita al servizio degli altri. Con loro sono Loreta, figlia amata da Dio e chiamata a far circolare questo amore con le persone che mi circondano.

Ogni volta mi sorprendo a pensare sempre la stessa cosa: non è equo lo scambio che c’è fra me e loro, io gli insegno qualche semplice nozione e conoscenza, loro invece sono per me maestri di vita.

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