I ragazzi della chat razzista

Un gruppo di ragazzini, quasi tutti minorenni, faceva parte di un gruppo su WhatsApp al cui interno ci si scambiavano video, foto, meme e commenti a sfondo razzista. Cosa fare?

La vicenda della chat “The Shoah party” deve farci interrogare. La riassumo così: un gruppo di ragazzini, quasi tutti minorenni, alcuni anche sotto i 14 anni, faceva parte di un gruppo su WhatsApp al cui interno ci si scambiavano video, foto, meme e commenti a sfondo razzista. Hitler, Mussolini, lo sterminio degli ebrei, gli immigrati e poi scene violenza molto pesanti. Ma cosa passa per la testa di questi ragazzi? Possibile che siano così vuoti, senza valori, cattivi, addirittura filonazisti?

Tutte domande lecite, ma non dobbiamo affrettare i giudizi. Nel mio libro scrivo di essere venuto a conoscenza per vie traverse di una chat il cui nome era “Comizio elettorale”. Il contenuto del gruppo, mi avevano raccontato, era simile a quello che oggi è al centro dell’attenzione. Ma sono certo che di gruppi così ce ne sono tantissimi. Molti di più di quelli che potremmo immaginare. Di nuovo, perché? Cosa spinge i ragazzi in questa direzione?

Non penso che il punto sia la mancanza di valori dei giovani, a meno che non tiriamo in ballo tutta la società in cui viviamo. L’adolescenza è il tempo della sperimentazione e, che ci piaccia o no, questa ricerca si spinge anche verso il brutto, lo sbagliato, l’orrore. C’è di più. Il bisogno di sentirsi parte del gruppo porta molti ragazzi ad aggregarsi attorno a comportamenti non sempre edificanti. Il gruppo, poi, deresponsabilizza i singoli che si sentono meno colpevoli per le azioni compiute. Infine, non possiamo fare finta che questo problema non esista, c’è il mezzo tecnologico che illude i ragazzi, ma spesso anche gli adulti, di essere anonimi, non rintracciabili, invisibili. «Possibile che becchino proprio me? – mi diceva un ragazzo qualche mese fa – Nella chat siamo centinaia…». La somma di questi tre aspetti ha dato vita a questo gruppo e a tanti altri che, ne sono certo, prendono vita nei telefoni dei ragazzi.

Che fare, dunque? Serve solo un maggiore controllo da parte degli adulti? Regole più dure?

Come suggerisco nel mio libro, è necessario mettersi in ascolto dei ragazzi. Non possiamo evitare che sperimentino il male, ma dobbiamo fare in modo che facciano esperienze positive, belle, in cui tocchino con mano che esiste un bene. Dobbiamo aiutare i ragazzi a interrogarsi sul mondo in cui stanno vivendo, sulle ingiustizie presenti, sulla fortuna che loro hanno nello stare da questa parte del Mediterraneo. Dobbiamo aiutarli a leggere la storia della Shoah, di Hitler e Mussolini andando alla ricerca di quei punti di incontro con il nostro presente. Dobbiamo fargli toccare con mano l’imperfezione che abita ciascun essere umano e non fargli credere che il senso di questa vita sia essere potenti per schiacciare i deboli. Dobbiamo combattere il razzismo, senza se e senza ma.

libro-i-giovani-non-sono-una-minaccia-citta-nuova-editore-682x1024

Certo, mi si dirà, per fare questo non basta una lezione o un laboratorio in classe. Dobbiamo tutti, politici compresi, fermarci a riflettere sul tipo di mondo che stiamo raccontando ai nostri figli. Proprio così. Ancora una volta sono i ragazzi a mostrarci che la direzione che la nostra società ha preso non è corretta.

Per concludere, ben vengano le sanzioni nei confronti di questi ragazzi. È bene che si rendano conto che un limite esiste sempre, anche online. Il richiamo alla Legge è fondamentale e troppo spesso viene dimenticato. Le nostre azioni hanno delle conseguenze, sempre. Però bisogna dare loro l’opportunità di capire quello che hanno fatto e impegnarci a raccontare, e testimoniare, un mondo differente. Magari accorgendoci di quanti messaggi razzisti transitano dalle bocche, e dai social, di tanti adulti.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons