Rachele e Vera, due donne della verità a Gerusalemme

Una è la madre di Naftali, il giovane israeliano ucciso durante la terza guerra di Gaza e che ha cercato di incontrare i genitori del ragazzo palestinese assassinato in contemporanea. L'altra è sindaco di Betlemme, che sta costruendo con coraggio il futuro della Palestina
Vera Baboun

Sono stato a Gerusalemme e Betlemme dal 17 al 20 luglio. Innanzitutto dovevo e volevo pagare un debito. Un anno fa ero ancora a Gerusalemme nel mese di luglio, durante la terza guerra di Gaza. Avevo chiesto di incontrare i genitori dei ragazzi ebrei sequestrati e uccisi nelle vicinanze di Hebron. Non fu possibile, nella concitazione di quei giorni. Però potei incontrare il babbo di Mohamed, giovanissimo ragazzo palestinese ucciso da estremisti israeliani nella zona di Betanina.

 

Ho chiesto all’ambasciata italiana se quest’anno poteva essere possibile. A un anno esatto da quell’eccidio. L’incontro è stato possibile ed ho potuto conoscer Rachele Fraenkel, la mamma di Naftali, ragazzo di 16 anni, un bellissimo ragazzo. Una donna mite e forte, al cuore di una grande famiglia di sei ragazzi.

 

Rachele (e il suo nome, “pecorella”, vuole pur dire qualche cosa) mi ha accolto con grande affetto. Un italiano venuto apposta a incontrarla per ricordare suo figlio, per pregare per lui e per noi, per condividere un dolore, senza limiti. Noi nella nostra lingua abbiamo la parola orfano a indicare la morte del genitore, la condizione di un figlio senza genitore, ma non abbiamo una parola per indicare un genitore a cui muore un figlio. Invece nella lingua ebraica questa parola esiste.

 

Arriviamo in un caldissimo pomeriggio in questa casa, con ragazzi grandi e piccoli, e anche con due porcellini d’India. i ragazzi ora sono sei: quattro femmine e due maschi, dai venti ai cinque anni. Ci aspettavano con qualche amico di famiglia.

 

Il colloquio diventa semplice e intenso. Le chiedo una foto di Naftali, per metterla nel libro delle preghiere. Naftali ha un bel volto, sorridente, assomiglia alla madre. Il suo stesso volto luminoso. Le chiedo che cosa le abbia dato la forza di resistere. Mi dà una risposta intensa: «In questi mesi io e mio marito abbiamo imparato a fare posto al riso e al pianto nei nostri cuori. A non respingere né l’uno né l’altro».

 

L’anno scorso Rachele aveva chiesto di poter incontrare i genitori di Mohamed, ma essi decisero diversamente ed io ho detto a questa grande madre di continuare a bussare a quella porta, perché alla fine si aprirà.

 

A Betlemme ho incontrato la mia grande amica Vera Baboun, il sindaco. Ero andato a visitare il campo estivo di danza di Antonella Lombardo: un centinaio di ragazzi di Betlemme radunati dalla danza e dal lavoro di una grande équipe di istruttori. Ciò che li unisce è creare pace e armonia tra i due popoli, Israele e Palestina, e tra tutti i popoli.

 

Vera è venuta a incontrarci: abbiamo parlato per oltre un’ora e mezzo. Abbiamo parlato di politica, del dolore e della sofferenza della Palestina, della politica nel suo comune, del grande sostegno di papa Francesco, della difficoltà di essere compresa fino in fondo dai suoi amici italiani.

 

Una donna di grande passione civile, che sta seminando con coraggio il futuro della Palestina e che difende i territori di Betlemme, che rischiano di essere fagocitati dal muro.

 

Dopo quattro giorni sarebbe arrivato il primo ministro Renzi. Sarebbe venuto a incontrare il presidente Abu Mazen, ma anche Vera, i ragazzi del campus e i restauratori pratesi della basilica della Natività. L’impresa Piacenti, giovani e bravissimi. Una visita bella, che la gente di Betlemme ha apprezzato.

 

 

Nel suo discorso alla Knesset, Renzi ha citato i tre ragazzi israeliani e non il ragazzo palestinese, una singolare e sorprendente dimenticanza, come le parole non dette sugli insediamenti e sui coloni.

 

Rachele e Vera, con la loro storia di mitezza e di fortezza, mi hanno consegnato in questi giorni il linguaggio della verità, che nasce sempre dall’esperienza del patire, sia nella vita personale che nella grande storia di una comunità e di un popolo. E allora il linguaggio della verità si fa davvero lasciando spazio al riso e al pianto, non cancellando nulla, perché nulla può essere cancellato, ma tutto deve essere narrato e consegnato.

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