Quinto di Treviso, guerra tra poveri

I residenti si sono lanciati in una vera e propria spedizione punitiva contro i richiedenti asilo che la prefettura aveva deciso di alloggiare in un complesso residenziale. Diamo una lucida lettura di quanto accaduto in quella regione che ha conosciuto l'immigrazione ben prima di altre zone d'Italia
Una giovane donna immigrata col suo bambino

A ormai più di 24 ore dagli sconvolgenti – non saprei trovare aggettivo migliore – fatti di Quinto di Treviso, dove i residenti si sono lanciati in una vera e propria spedizione punitiva contro i richiedenti asilo che la prefettura aveva deciso di alloggiare in un complesso residenziale, è difficile dire qualcosa che già non sia stato detto. Sui giornali e sul web si sono sprecati fiumi di parole a proposito dell'inadeguatezza della politica di accoglienza, di politici che cavalcano la retorica della paura, del disagio inascoltato di tante fasce della popolazione che trova sfogo nella rabbia verso persone che vengono percepite come «mantenute» a scapito di tante italianissime famiglie che faticano ad arrivare a fine mese; tutte osservazioni pertinenti, però la difficoltà rimane quella di mettere insieme i tasselli di un mosaico difficile da comprendere. E da giornalista veneta, che ha oltretutto superato l'esame professionale grazie ad un reportage sui profughi accolti proprio a Treviso, non posso non sentirmi interpellata.

Facciamo prima di tutto chiarezza su una cosa: l'immagine del Veneto razzista è quantomeno semplicistica. Stiamo parlando di una regione che ha conosciuto l'immigrazione ben prima di altre zone d'Italia, in cui gli stranieri residenti sono oltre mezzo milione su poco meno di cinque milioni di abitanti, di cui molti di seconda generazione: per cui invocare un razzismo generico non spiega come mai soltanto ora, dopo circa 30 anni dai primi arrivi, accadano episodi tanto gravi. Chi lavora ed è inserito nel tessuto economico ed imprenditoriale dell'«operoso Nordest», in cui il primo segno dell'essere una brava persona è essere un buon lavoratore, è quantomeno tollerato: ricorderò sempre il commento di un mio paesano a proposito di una donna dominicana, che si era fatta apprezzare per le sue capacità professionali, «la sarà anca marochina, ma la è brava» (sarà pure marocchina – perché inizialmente quasi tutti gli immigrati arrivavano dal Marocco, per cui lo straniero è indistintamente marocchino – ma è brava). Non a caso tra coloro che hanno letteralmente attaccato i richiedenti asilo c'erano anche immigrati di lunga data: segno che ormai, almeno dal punto di vista delle dinamiche sociali, sono assimilabili ai veneti. Certo, parlare di autentica e felice integrazione sarebbe eccessivo – per quella bisognerà forse aspettare l'età adulta di coloro che sono nati e cresciuti insieme, italiani ed immigrati -, ma situazioni da «banlieue francese» – come alcuni giornali le hanno chiamate – non credo descrivano la realtà del Veneto.

Se tutto ciò lo dico da veneta, da giornalista osservo un'altra cosa. Tutti i media hanno dato spazio alla stessa, identica e limitata – cinque o sei persone in tutto – ridda di testimonianze di chi protestava: la mamma di due bimbi piccoli, esasperata perché ha davanti 30 anni di mutuo da pagare; l'anziano che non riesce a pagare le bollette e non ha trovato ascolto da quelle stesse istituzioni che ora danno alloggio ai richiedenti asilo (ironia della sorte senza utenze attivate, come ha appurato la Asl); il signore che ha bisogno disperato di vendere quell'appartamento, e che di fronte a questa situazione ha visto volatilizzarsi i potenziali acquirenti. Poche persone che sono state in grado di catalizzare l'attenzione a livello nazionale, con motivazioni che peraltro sembrerebbero aver poco a che fare con il fenomeno migratorio in sé e per sé.

È su questo disagio di un Nordest che vede in crisi la sua identità di «terra del miracolo economico» che fa facile presa la retorica della paura – quella sì beceramente razzista – del diverso, in una guerra tra poveri. È evidente che i commenti del tipo «E se mi violentano?» «E se filmano le mie bambine con il cellulare per mettere il video in internet?» non sono razionalmente giustificati: la paura non lo è mai. Né c'è razionalità nel dire prima «diamo gli arredi di questi appartamenti agli alluvionati di Noale», per poi bruciarli nel cortile in preda alla rabbia. Ha scritto bene oggi Francesco Jori su La Tribuna di Treviso: «Fare la faccia feroce significa solo scaricare il vero problema sulla gente, senza distinzioni, alimentando una guerra tra poveri di cui pagano il prezzo tanto i residenti quanto gli stranieri, entrambi incolpevoli». Che fare, dunque? Il suggerimento più azzeccato, nel commentare la notizia sulle pagine web de Il Gazzettino, è forse quello del senegalese Amadou in risposta a una signora che dice di aver paura di far giocare i suoi figli in un giardino dove ci sono anche immigrati: «Cara signora, per vivere meglio e in pace, le chiedo di mandare i suoi figli a bere il tè insieme a questi ragazzi che sono essere umani con lei. Io sono qui in Italia da 10 anni, sto lavorando, sto aiutando l'Italia a crescere, e con i miei contributi sto pagando la pensione ai tutti quegli anziani che mi guardano male per le strade di Treviso. Non me ne andrò dall'Italia perché ho una moglie italiana, un bel figlio meticcio e il passaporto italiano. Con l'odio non si fa niente».

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