Qui un Natale speciale
Incontro con mons. Giuseppe Molinari nel capoluogo abruzzese. Mancano case, lavoro, chiese. Ma cresce la convinzione del senso di questa festività.
Natale, quello dell’irruzione silenziosa del Figlio di Dio nella Storia, è anche profonda precarietà. Senza un alloggio, allora. Senza chiese sufficienti per celebrarlo, oggi, qui a L’Aquila.
«Uno dei problemi principali che i parroci mi sono venuti a chiedere era di come fare per le celebrazioni del Natale. Durante l’estate è stato più semplice, perché c’erano le tendopoli dove non mancavano spazi per le celebrazioni». Mons. Giuseppe Molinari, arcivescovo del capoluogo colpito dal sisma, racconta a Città nuova la sua attesa del Natale.
«Le comunità del centro storico sono disperse. C’è da capire sempre meglio come sono composti questi abitati sorti in questi mesi attorno alla città. I parroci stanno accogliendo questi nuovi venuti, ma resta il fatto che i paesi attorno a L’Aquila hanno le chiese inagibili».
Anche da parte di chi non crede si sta scoprendo che gli edifici di culto rivestono un’importanza che travalica la comunità ecclesiale. Tanto che s’è verificata una situazione paradossale. Racconta mons. Molinari: «Subito dopo il terremoto, io stesso avevo detto: “Prima le case, poi le chiese”. Adesso, anche i giornali di sinistra, cui piaceva molto quella frase, adesso dicono: però ci servono le chiese».
Con che stato d’animo la gente aquilana si appresta a vivere un Natale decisamente diverso?
«La nostra gente lo ha già dimostrato: dignità, forza interiore, gratitudine per tutti quelli che ci hanno aiutato. Conserva un atteggiamento fondamentale di fede in Dio. Anzi, questa terribile prova ha portato la gente a stare più vicina, a parlare di più. Molti me l’hanno detto: “Il terremoto è stato un’enorme tragedia, ma ci ha costretti a stare insieme e abbiamo riscoperto il piacere di dialogare, di aprirci agli altri”».
L’immenso dolore, la costante precarietà di questi mesi hanno disperso il gregge a lei affidato?
«Un po’ di dispersione c’è stata, soprattutto nel periodo immediatamente successivo. Molti sono andati negli alberghi sulla costa, molti nelle tendopoli. Però adesso tutte le tendopoli sono state smobilitate, il 48 per cento delle abitazioni sono state trovate agibili. Molti ritornano nelle case».
Una faticosa riconquista della normalità.
«Purtroppo è anche vero che il terremoto ancora non ci lascia dormire in pace. Ogni tanto qualche scossa fa riaffiorare la paura, però molti sono ritornati nelle proprie abitazioni».
Gli aquilani si aspettano qualcosa di particolare da questo Natale?
«Si aspettano un accordo tra tutte le istituzioni affinché la ricostruzione avvenga davvero in modo rapido, trasparente e si provveda soprattutto all’emergenza del lavoro. La disoccupazione era già un problema serio prima del sisma, adesso s’è accentuato: aziende distrutte, altre andate in crisi, piccoli artigiani costretti a chiudere l’attività. Se manca il lavoro, è difficile che la gente possa raccogliere l’invito a rimanere, a non fuggire. E poi il problema dell’università. Ha resistito bene a questa grande prova: non ci sono gli iscritti dello scorso anno, quasi 30 mila, ma gli oltre16 mila di adesso, con tanti venuti da lontano, anche dal Sud, fanno sperare nel futuro».
Come sarà vissuto questo Natale?
«Con la consapevolezza che la croce non è l’ultima pagina della storia, perché c’è la risurrezione. Non c’è risposta alla nostra tragedia, ma, come dice Paul Claudel, Gesù non è venuto a spiegarci la croce ma a distendersi sulla croce. Accogliendo la vicenda di Gesù Cristo, uno sa che anche la sofferenza più grande non è senza significato, anche se il senso autentico non lo scopriamo subito. Ecco, perciò, che anche nel contesto della tragedia del terremoto, il Natale, per chi ha fede, porta luce, speranza».
Ai piedi della mangiatoia qual è la preoccupazione più grande che deporrà?
«Pensando al popolo che vive in questo territorio colpito da una tragedia così grande non ho dubbi: il futuro dei giovani».
E riguardo a lei?
«Io mi sento uno che sta vivendo una seconda vita, perché sono vivo per miracolo. Quella notte, dopo la seconda scossa, sono andato a riposare. Ero coricato sul lato sinistro, quando ho sentito un piccolo dolore vicino al cuore. Mi sono alzato temendo che, per la paura delle scosse, il cuore incominciasse a cedere. Allora sono sceso in sala da pranzo aspettando l’alba e lì è arrivata la scossa: violenta, terribile, mostruosa, indimenticabile. Quel piccolo dolore è stata la mia salvezza. Quindi offrirò tutto questo al Signore e chiederò a Gesù che mi conservi un animo di bambino e un cuore semplice».
In questi mesi di dolore quante volte s’è chiesto: perché?
«Me l’hanno domandato anche alcuni confratelli. Non credo di averlo chiesto tante volte. Se l’ho chiesto, l’ho fatto nel contesto di una preghiera a Dio che sa trarre il bene anche da una tragedia di oltre 300 nostri fratelli e sorelle che non sono più, molti dei quali li conoscevo. È stato straziante quando sono andato all’obitorio a incontrare i parenti.
Cosa le ha dato particolare consolazione?
«La tanta gente incontrata in questi giorni che mi ha detto: “Coraggio! Per me è importante che ci sia la Chiesa, che ci sia il vescovo, che ci siano i sacerdoti”. Me l’hanno detto anche persone che sembravano lontane dalla Chiesa».
C’è una vicenda che l’accompagna in questo Natale?
«Tra le tante, una. Quella di una coppia, Marcella e Maurizio. Erano venuti da me, volevano sposarsi a fine agosto. Maurizio, la notte del terremoto, assisteva la madre: lei s’è salvata, lui no. Marcella, il 30 agosto, ha voluto lo stesso che si celebrasse una messa, in cui hanno suonato i suoi colleghi musicisti. È stata una celebrazione molto toccante».
Il suo augurio per Natale?
«Il Natale è sempre una festa bellissima per tutti, però il cristiano non si ferma alla poesia, al sentimentalismo. Va alla radice, alla grande verità che Dio Amore è entrato nella nostra Storia».