Quello che il teatro insegna
Fa bene al cuore scoprire che, da qualche anno a questa parte, si aggirano per il mondo due curiose figure. Si dicono contemporanee eppure sembrano d’altri tempi, due pittoreschi personaggi di una tela di Chagall che fluttuano l’uno accanto all’altra. Sono entità separate, hanno corpo, mani e voci, eppure parlano un’unica lingua che racconta lo stesso identico sogno: il teatro come solo loro lo sanno fare, il loro teatro. Gabriella Casolari e Gianfranco Berardi mi accolgono nel Teatro dell’Orologio di Roma per una chiacchera informale prima di andare in scena. Un’ora del tè degna di Lewes Carrol, durante la quale la trascinante ironia di Giancarlo e la delicata poesia di Gabriella, mi dicono già molto di quello che a breve vedrò sulla scena: La migliore, la prima, un lavoro scritto per raccontare la Grande Guerra, un adattamento del testo Niente di nuovo sul fronte occidentale. Giancarlo mi racconta della sua avventura nel teatro, iniziata proprio inseguendo il desiderio di raccontarsi: «Io ero un talento da oratorio, ero il più bravo della parrocchia. Facevo cose tipo Forza venite gente. Poi ho pensato: perché non provare anche io a raccontare di me? E insieme ad altri ragazzi del mio paese abbiamo iniziato un laboratorio che poi ci ha portato a girare un cortometraggio, Stupendo». Poi nel 1999, l’incontro col Teatro Contemporaneo. «Seguii un laboratorio con Marco Manchisi, uno degli attori della compagnia di Leo de Berardinis e Perla Pieragallo, e lì ho incontrato Gabriella Casolari. Era il 2001». E da quel momento non si sono più lasciati. «Ho incontrato un angelo». Vi siete scelti? «Ci siamo capitati».
La crisi economica è stata salvifica: il grande spettacolo non trovava spazi produttivi, quindi dovevano nascere progetti più piccoli, dove poter sperimentare la scrittura scenica e il teatro di ricerca. Così è nato il primo spettacolo: «Avevo voglia di raccontare tutta la mia rabbia, la mia ribellione e il mio talento, nonostante la mia cecità», continua Gianfranco, «Noi siamo monadi Leibniziane: ci esprimiamo al massimo quando uno sguardo esterno ci guarda col cuore aperto, cercando di capire cosa può aiutare la nostra creatività. Purtroppo non sempre questo avviene». Qual è il vostro metodo di lavoro? «Il nostro metodo non è stabilito a priori: noi lavoriamo coi materiali che incontriamo nel nostro percorso di ricerca sul tema – è stato così per In fondo agli occhi, scritto partendo da materiali raccolti durante un viaggio lungo due anni su e giù per la penisola. Il tema è la cecità come metafora di una malattia che è la condizione esistenziale della nostra epoca». E lo spettacolo che stiamo per vedere? Come è nato questo lavoro, invece? «Il testo è troppo bello: è letteratura, non è drammaturgia. Il rischio era la retorica, soprattutto per la tematica. Abbiamo spostato il discorso universale sul piano biografico, usando delle immagini sceniche che, come metafore, potessero veicolare un significato condiviso». E la cecità? Come incide sul lavoro in scena? Come ti muovi nello spazio? «Normale. Quello che non vedo, lo prendo», ironizza Giancarlo, poi continua: «Il corpo ha una sua intelligenza, una sua memoria. Se tutti diventassimo più consapevoli di questo, impareremmo ad ascoltare. Il teatro ti insegna un ascolto non solamente frontale, ti aiuta a sviluppare una percezione e un’attenzione dello spazio che spesso nel nostro quotidiano non siamo abituati a coltivare. La scena deve essere sentita, non necessariamente vista».
Tra pochi minuti si va in scena. Saluto Gabriella e Gianfranco e mi preparo a immergermi nella penombra della sala, in attesa di uno spettacolo che già mi appare sensazionale. Ma questa è un’altra storia.
To be continued…