Quelli che hanno perso l’infanzia

Bambini che vivono nelle fogne in Romania, meninos de rua in Brasile; bambini soldato in Sierra Leone, vittime della pornografia negli Usa; a fabbricare palloni in Pakistan e dentro le miniere in America Latina. E non finisce qui la lunga lista nera, quella che conta milioni e milioni di creature sfruttate, violentate, rapite della loro infanzia. Nei paesi poveri come in quelli ricchi, nel nord e nel sud del mondo, ad est come ad ovest. Difficile quantificarne esattamente le proporzioni. L’illegalità, è ovvio, si nasconde dietro ombre giganti che ne impediscono il rilevamento. Nonostante ciò si parla di cifre che si aggirano sui 250 milioni nei soli paesi in via di sviluppo, mentre quindici milioni sarebbero quelli interessati in Europa e più di cinque milioni negli Stati Uniti. Cifre da brivido e comunque approssimative per difetto. Se ne è parlato di recente anche a Lucca durante il vertice europeo sull’infanzia. Ventinove ministri provenienti dai quindici paesi dell’Unione, dai dieci entranti e da Romania, Turchia, Croazia e Bulgaria, hanno firmato una risoluzione per invitare i rispettivi stati a mettere in atto politiche tese a contrastare il fenomeno del lavoro minorile. Guardandolo anche come uno dei problemi legati all’economia sommersa che proprio fra i minori cerca reclute “spesso nelle forme più pericolose e nascoste, inclusi il lavoro forzato, la schiavitù e quelle situazioni in cui i bambini sono confinati nelle abitazioni del loro datore di lavoro”. Varie sono, infatti, le forme di sfruttamento. C’è il lavoro domestico, cioè quello svolto presso case altrui da bambini che oltre ad orari massacranti vanno incontro a maltrattamenti, malnutrizione, abusi sessuali. In Sri Lanka, ad esempio, una famiglia su tre ha in casa un servo- bambino e in Kenya ce l’ha una su cinque. C’è poi il lavoro nelle industrie e nelle piantagioni: bambini che scavano nelle miniere della Colombia, che lavorano il vetro nelle fabbriche dell’India, che lavorano nelle piantagioni irrorate di pesticidi nello Zimbabwe. Il lavoro forzato di bambini che pagano i debiti dei loro genitori quasi con un contratto di tipo schiavistico. E in certi casi anche il lavoro in famiglia che, se può essere educativo nella forma di un coinvolgimento ragionevole, può arrivare a pregiudicare la normale crescita del bambino qualora diventa oppressivo impedendo le attività tipiche dell’infanzia quali scuola e gioco. E, sotto gli occhi di tutti, il lavoro di strada: elemosinare, lucidare le scarpe, vendere bevande” Per non parlare, infine, del “commercio” più ignobile del mondo: quello dello sfruttamento sessuale che sconvolge la vita di almeno un milione di minori l’anno: una vera forza- lavoro in grado di portare nei propri paesi guadagni in valuta estera e per questo considerata ancora più “redditizia”. Non è che non si sia fatto niente a livello internazionale e che non esistano delle leggi che potrebbero garantire la vita di quei milioni di bambini in un modo o nell’altro interessati dal fenomeno. L’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) ad esempio, sin dalla sua nascita nel 1919 ha prodotto dei trattati multilaterali per regolamentare la questione. E il 20 novembre 1989 l’Assemblea generale delle Nazioni unite approvava la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, prendendo in considerazione tutti i diritti che riguardano la vita di una persona fino ai 18 anni. Numerosi sono anche i vertici che riuniscono attorno ad un tavolo ministri, parlamentari, organismi internazionali” ma certo poi bisogna passare dalle parole ai fatti. Qualche risultato si può ottenere ed è stato ottenuto laddove l’impegno segue la denuncia, le promesse diventano concretizzazioni. E posto per posto si cerca la soluzione adatta. Cominciando da piccoli passi magari. Una prospettiva sembra essere comune a chiunque operi in materia: occorre partire dalla scolarizzazione. Mentre tanti nostri ragazzi frequentano la scuola con fatica, mentre molti nostri professori non hanno una cattedra, in Guinea equatoriale c’è un insegnante ogni 90 alunni, solo per fare un esempio. E sono 115,4 milioni nel mondo i bambini privi di scolarizzazione. Inutile dirlo, studiare vuol dire uscire da un circolo vizioso di ignoranza che genera sfruttamento, fonte a sua volta di riciclo di situazioni perverse. Ma come si fa a togliere a famiglie che versano in miseria quel piccolo contributo che il bambino-lavoratore porta a casa e che serve a sfamare i fratellini più piccoli? E con quali mezzi si pagherà la scuola? Innumerevoli sono le iniziative di solidarietà in tal senso che se non risolvono il problema, almeno costituiscono un segnale. Sono promosse a volte dagli stessi ragazzi (vedi ad esempio www.schoolmates. org) oltre che da organismi riconosciuti quali Unicef, Save the children e altri. Nella maggior parte dei casi non è possibile che un bambino passi in maniera netta dal lavoro allo studio. Ecco nascere forme flessibili capaci di coniugare le due esigenze, prendendo in seria considerazione soluzioni locali in base alle relative diversità e necessità. Da qui le “scuole mobili”, gli “educatori di strada”, le “giornate scolastiche di quartiere” che portano la scuola ai bambini anziché i bambini alla scuola. Anche secondo l’Unicef “non è pensabile che il lavoro minorile scompaia dal mondo oggi e neppure domani. Segnali positivi però sono visibili. Dal 1999 ad oggi, sono ben 132 gli Stati che hanno ratificato la Convenzione n° 182 dell’Oil sull’abolizione delle forme peggiori di sfruttamento economico dei minori. E si stima che dal 1996 ad oggi il numero dei bambini lavoratori nel mondo sia diminuito di 40 milioni di unità. Sono i primi segni di successo dell’impegno messo in campo in questi ultimi anni, e che soltanto la volontà degli Stati e la solidarietà dei cittadini potrà rendere duraturo”. La rete italiana contro lo sfruttamento minorile Non c’è paragone fra le proporzioni del fenomeno lavoro minorile in Italia rispetto ai paesi in via di sviluppo o dell’Est europeo. Si passa dai milioni alle migliaia e questo è consolante. Però anche quelle migliaia ci sono e non possiamo dire che il nostro paese sia esente da questa forma illegale di reclutamento di forza lavoro. Le ricerche Istat attestano a 31.500 unità i bambini italiani (non quindi gli stranieri presenti nella penisola) tra i 7 e 14 anni soggetti a sfruttamento. Svolgono mansioni come camerieri, commessi, pastori, agricoltori, operai nelle pelletterie del falso e addirittura vengono arruolati dai clan criminali data la non punibilità dei reati commessi da minori. Il fenomeno, in genere riferito alle regioni meridionali dove l’abbandono scolastico è legato a situazioni di povertà o alla criminalità organizzata, registra una tendenza al rialzo nelle regioni del Nord-est. Qui infatti la percentuale dei ragazzi che hanno lavorato prima dei 15 anni arriva al 19,40 per cento, contro un 14,10 nel nord-ovest, un 9,60 al centro, un 13,90 al sud e un 12,30 nelle isole. Per una media nazionale che risulta così del 13,80 per cento. Le ragioni che alimentano questa tendenza sono da riscontrare nella crescita delle piccole imprese a conduzione familiare dove è facile che i figli, anche in età scolare, trovino un impiego redditizio con conseguente abbandono della scuola secondaria. Oltretutto si tratta di manodopera a un costo più basso e con la “concorrenza” straniera in corso” Anche in Italia dunque, come nel resto del mondo, bisogna partire dalla scuola, favorendo tutte quelle azioni di monitoraggio che consentano interventi di recupero in tempi brevi. Nel nostro paese è attivo da quest’anno l’Osservatorio sul lavoro minorile che può vantare già il raggiungimento di alcuni traguardi. Ne par- liamo con il responsabile della comunicazione, Pino Pelloni. Perché un Osservatorio? Che obiettivi si pone? “L’Osservatorio nasce a Roma il 29 aprile di quest’anno dalla Fondazione Banco di Napoli. L’idea di un organismo che si dedicasse a monitorare, intervenire e interessare l’opinione pubblica e le istituzioni sul fenomeno del lavoro minorile nel nostro paese è stata di Francesco Seccia che ne è divenuto il presidente. La legge italiana prevede che si possa lavorare dai 15 anni in su ma fino ai 18 anni sono consentiti solo lavori non dannosi. Sappiamo però che non basta l’esistenza di una legge. È ovvio che noi andiamo ad indagare quelle fasce di marginalità in cui queste regole non vengono rispettate. Puntiamo molto sul contatto quotidiano con i cittadini che ci fornisce “dal basso” i dati con i quali poi poter fare una “fotografia” della situazione. Questo ci fa rileggere anche i dati ufficiali, quelli dell’Oil o dell’Istat, ad esempio”. È per questo che avete istituito il numero verde 800 900 904? “Sì, a dire il vero quando lo abbiamo istituito non pensavamo che sarebbe diventato lo strumento principale delle nostre indagini. Invece è stato subito molto usato. Le segnalazioni più frequenti, oltre l’accattonaggio, riguardano la dispersione scolastica. Se un cittadino vede un ragazzino che in orario scolastico lavora in un bar ad esempio, capisce subito che è un caso che ci interessa. Dopo queste sollecitazioni i nostri operatori si attivano presso le istituzioni”. Avete anche creato una rete dei comuni. Cosa ha prodotto? ” Da quello che ci dicevano i cittadini ci siamo resi conto che sfruttando le competenze dei comuni l’intervento diventava più efficace. Abbiamo quindi cercato di coinvolgerli. Napoli, Roma, Verona, grandi e piccoli comuni hanno aderito alla nostra proposta con efficaci interventi della polizia municipale e la ricerca di soluzioni adatte da parte degli assessorati preposti”. Non è un caso, forse, che Napoli, spesso divenuta simbolo dell’infanzia violata, sia stata la prima grande città italiana a firmare la carta della rete dei comuni. E proprio il capoluogo campano ospiterà nella primavera del 2004 il Forum sui diritti negati dell’infanzia, un evento organizzato dall’Onu e dall’Unione europea. Mentre a Firenze nel maggio 2004 si svolgerà il primo congresso mondiale dei bambini. Ne arriveranno 500 da tutto il mondo per dire basta allo sfruttamento minorile. Anche l’Osservatorio non si ferma. Tanti gli appuntamenti in agenda nei prossimi mesi, in Italia e non solo. Un lavoro necessariamente in sinergia con tante altre componenti di quella società che verso lo sfruttamento è intollerante.

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