Quelle sedie vuote di Ionesco

Una coppia di vegliardi circondati da una ressa di figure inesistenti, in una farsa tragica dove si ride con angoscia, per esorcizzare la paura e la disperazione. Regia di Valerio Binasco
Le sedie Ionesco

È un bel colpo d’occhio la scenografia che ci accoglie entrando: un enorme stanzone dalle mura ammuffite e il pavimento sbrecciato e terroso, un tetto in rovina con delle pendolanti plafoniere al neon, un cumulo di sedie accatastate l’una sopra l’altra fino al soffitto, e tre al centro. Di fronte, una grande finestra senza ante oltre la quale s’intravede una linea d’orizzonte che unisce mare e cielo. Siamo nella casa-faro in cui è ambientato uno dei capolavori del franco-romeno Eugène Ionesco: Le sedie (1952), tragedia di un’umanità condannata dalla nascita a espiare il peccato di esistere.

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Circondati dal rumore del mare e dai loro inutili e perniciosi ragionamenti in cui affiorano brandelli di ricordi, di delusioni immedicabili e salvifiche utopie, due coniugi centenari ‒ il marito, Maresciallo d’Alloggio, e la moglie col nome dell’antica regina babilonese Semiramide ‒ evocano un mondo che da tempo ha cessato di esistere. A interrompere quel loro sproloquio, puntellato dal rivendicare peccati veniali di egocentrismo subito dissolti, è la notizia che devono arrivare “tutti”, ovvero degli invitati ai quali il vecchio consegnerà un messaggio da lasciare all’umanità. Consapevole della sua incapacità di esprimersi adeguatamente, ha affidato la sua missiva a un oratore professionista. Che arriverà. Ecco giungere prima un’accolita di fantasmi visibili solo ai loro occhi nei soprassalti di un sogno che, come e più di un delirio, dal palco si propaga alla platea. Giungono, infatti, i rappresentanti della Commedia Umana, accolti dai due anziani con umile deferenza, disponendo via via sempre più sedie. Le parole degli invitati, che non udiamo, ci arrivano nelle risposte dei vegliardi, i quali parlano, raccontano, rievocano sensi di colpa, fantasie cupe, speranze e timori, in attesa del messaggio affidato all’oratore. Messaggio che si rivelerà incomprensibile.

È chiaro, Ionesco parla di noi, sperduti in un mondo virtuale di comunicazioni fantomatiche. Parla anche dello spazio teatrale, dei suoi riempimenti e svuotamenti, dopo che la pandemia lo aveva costretto alla chiusura, senza pubblico e senza contatto, e ora aperto e con gli spettatori riammessi. Binasco fa accendere lentamente le luci sulla platea e fa entrare in scena un occhio di bue che si muove illuminando prima i due personaggi che ci guardano emozionati avanzando e fermandosi sul proscenio, poi puntando verso gli spettatori, non più fantasmi ma persone in carne e ossa. È lui, quell’occhio di bue, l’atteso Oratore (nel testo originale è un attore in carne e ossa). E ora che è finalmente giunto, pronto a illustrare il messaggio ‒ «… lascio a te la cura di far rifulgere sulla posterità la luce del mio spirito…» – dirà il vecchio all’invisibile personaggio. «Fa’ conoscere dunque all’Universo la mia filosofia… Non trascurare alcun particolare, sia comico sia tragico sia commovente, della mia vita privata, … racconta tutto… parla della mia compagna…» ‒. Dopo i molti ringraziamenti a tutti i presenti e gli assenti, si giunge ai dolorosi addii del commiato.

Nel sopravvenuto silenzio la coppia si allontana e si avvia verso la finestra la cui parete è troppo alta. Non può sfuggirci, nella performance dei due interpreti, quell’allungare le braccia sul parapetto e alzare i piedi nel tentativo di issarsi e salirvi, che ce li fa sembrare simili a dei bambini davanti a una parete troppo alta da arrampicare. Impossibilitati ricorrono a una sedia sulla quale salgono faticosamente. Sedutesi di spalle a noi sul bordo della finestra che immaginiamo aperta su un altissimo precipizio con sotto il mare, quelle due sagome sullo sfondo di un cielo magrittiano, dandosi teneramente e lentamente la mano, si lasciano infine cadere.

C’è, nell’allestimento di Binasco, una ricchezza di dettagli sparsi ovunque: sulla scena come nelle luci e nelle musiche – da una canzone francese a una popolare, dai rumori a sonorità sospese, a quelli di una chitarra elettrica immaginata dal vegliardo col suo bastone ‒, ma soprattutto nei protagonisti mirabilmente invecchiati, Federica Fracassi e Michele Di Mauro, coppia perfetta, struggenti e poetici, goffi e maniacali nel loro muoversi strascicato, nelle battute puntigliose o biascicate, nelle espressioni mimiche evidenziate dai volti di biacca. In questa farsa metafisica, parodia della commedia umana, il regista spruzza sulle due figure certa polvere beckettiana, imprimendo nel ritmo, tra sarcasmo e angoscia, una comicità malinconica, vibrante di tenera umanità. E fa di questo testo, tra i più emblematici del “teatro dell’assurdo” di Ionesco, una grande storia d’amore. Va segnalato che con questo spettacolo Federica Fracassi ha ricevuto il premio “Le maschere del teatro italiano” 2021 come miglior attrice protagonista, e Nicolas Bovey il Premio Ubu 2020-2021 per la miglior scenografia.

“Le sedie”, di Eugène Ionesco, traduzione Gian Renzo Morteo, con Michele Di Mauro e Federica Fracassi, regia Valerio Binasco, scene e luci Nicolas Bovey, costumi Alessio Rosati, musiche Paolo Spaccamonti. Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale. Al Teatro Vascello di Roma, dall’1 al 6 marzo 2022.

In tournée a Genova, Teatro Duse, dal 9 al 13; Milano, Teatro Carcano, dal 15 al 20; Napoli, Teatro Bellini, dal 29 marzo al 3 aprile; Modena, Teatro Storchi, dal 7 al 10; Ravenna, Teatro Alighieri, dal 28 aprile all’1 maggio.

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