Quelle croci senza nome, quei cuori in pace

La vicenda di profonda umanità di due reduci della guerra delle Faklands/Malvinas, un argentino e un inglese, che hanno ridato pace ai familiari dei caduti non identificati. Un potente messaggio alle nuove generazioni
Malvinas
Julio Aro e Geoffrey Cardozo in viaggio. Foto concessa dalla fondazione No me olvides.

«Camminavo tra le croci bianche e non lo trovavo. Cercavo e ricercavo il suo nome tra quelle lapidi grigie. Gridai nella terribile solitudine del cimitero di Darwin: “Figlio mio, dove sei?”. Attendevo un segno, ma non ho avuto risposta. Così baciai tutte le croci senza nome, e ne scelsi una qualsiasi per lasciarvi i fiori. Sai che tristezza si sente quando cerchi tuo figlio e non lo trovi?».

Nelida Montoya, madre del soldato Horacio Echave (dal documentario El héroe del Monte Dos Hermanas).

Julio Aro non trovava sé stesso. Erano passati 26 anni, ma quei due mesi vissuti a 19 anni non l’avevano mai lasciato. Come tanti altri giovani argentini, nel 1982 era partito per le isole Malvinas, dopo il servizio militare, per occuparne il territorio, che il suo Paese aveva riconquistato cruentemente. Il governo militare aveva deciso l’invasione delle Falklands (come le chiamano gli inglesi) per rafforzare il Regno Unito a negoziarne la sovranità. Ma, come sappiamo, le cose andarono diversamente.

In quella guerra persero la vita 904 soldati e tre civili. Molti di più (forse 2.000) non hanno potuto sopportare la morte che avevano dentro e i fantasmi che li abitavano. L’alcool, la droga o il suicidio se li sono portati via anni e anni dopo. La maggior parte degli argentini aveva meno di 25 anni. La metà era di 18 o 19. Come Julio, che ora era tornato a cercare «quel Julio che avevo lasciato lì – spiega in un’intervista – e i compagni che aveva seppellito». Non trovò né l’uno né gli altri.

Nel cimitero di guerra argentino che gli inglesi avevano allestito a Darwin c’erano 232 croci, ma 122 non avevano nomi. Solo la scritta “soldato argentino conosciuto solo da Dio”. «Mi misi nei loro panni: se fosse toccato a me rimanere là, sarei stato uno di loro, perché avevo perso la mia piastrina identificativa». Come tanti di quei ragazzi inesperti buttati in una trincea fangosa e gelida. «Ti avrei cercato fino alla fine dei miei giorni», gli disse sua madre. «Capii allora, dopo tanti anni, il dolore e la sofferenza di quelle madri…». Decise che doveva fare qualcosa. Doveva restituire l’identità ai suoi compagni caduti.

Il capitano Geoffrey Cardozo giunse a Stanley il giorno dopo la fine della guerra. Aveva 32 anni. Specialista in stress post traumatico, la sua missione era quella di occuparsi della salute e della disciplina dei militari, carichi di adrenalina in seguito ai combattimenti. Intanto, si procedeva allo sminamento del terreno, e si cominciarono a rinvenire corpi di soldati argentini. «Ricordavo il bacio e l’abbraccio intenso di mia madre prima della mia partenza, e pensavo alle madri di quei ragazzi». Molti di loro non avevano la piastrina identificativa.

Cardozo seppellì ognuno sul posto con sommo rispetto. Quando arrivò l’ordine di costruire un cimitero, prese nota minuziosamente del luogo di ritrovamento e di ogni effetto personale rinvenuto. Ci fu anche una cerimonia religiosa con onori militari. Quando Julio Aro visitò Londra, pochi mesi dopo il suo viaggio alle isole, invitato da un reduce inglese, un giorno l’interprete chiese di parlargli. Era Geoffrey.

Gli raccontò la sua storia e gli consegnò una grossa busta. Era una copia del rapporto che aveva mandato ai suoi superiori. Non era segreto: le autorità britanniche l’avevano inviato a quelle argentine, con l’offerta di rimpatriare quei corpi. «Essi sono nella nostra Patria, e lì rimarranno», fu la risposta del generale Galtieri a Margaret Thatcher. «Fu allora che mi si ordinò di dare loro una sepoltura onorevole e allestire un cimitero». Julio rimase impressionato: ciascun caduto era stato avvolto in tre borse prima di essere posto nella bara.

«Sull’aereo, mentre tornavo in Inghilterra e vedevo le isole sempre più piccole – ricorda Geoffrey –, il mio pensiero andava, con dolore, a quei giovani che non avevamo potuto identificare, e alle loro madri». Con quel rapporto e una ferma volontà, Julio creò la fondazione No me olvides (“Non dimenticarmi”) e si mise alla ricerca.

Analizzando i documenti, il suo amico reduce José María Raschia scoprì che per la tomba 15, fila 2l, settore A erano annotati numeri che forse si riferivano a un documento, insieme alla parola “Corrientes”. Una veloce ricerca indicò che corrispondevano al soldato Gabino Ruiz Díaz. «Riuscimmo a localizzare la persona che riceveva la sua pensione di guerra: una signora della provincia di Corrientes chiamata Elma Pelozo. Sua madre. Salimmo in macchina e andammo a trovarla». Gabino fu così il primo “soldato argentino conosciuto solo da Dio” ad avere nome e cognome. Il primo di 116. Ne mancano ancora 6.

Malvinas
Cimitero di Darwin. Foto concessa dalla fondazione No me olvides

Non è stato facile, ma hanno trovato per il cammino persone senza le quali l’impresa non sarebbe stata possibile. Attraverso una giornalista, Gabriela Cociffi, alla quale Julio e José María si erano rivolti, si aprì la possibilità di realizzare test di Dna a parenti dei reduci e confrontarli con quelli dei caduti, grazie alla Croce Rossa Internazionale e all’Equipe Argentina di Antropologia Forense, all’Onu e agli accordi tra i due governi. Per attivarli ci si mise anche Roger Waters dei Pink Floyd, figlio e nipote di caduti in guerra, che incontrò la presidente argentina Cristina Fernández e scrisse all’assemblea legislativa delle isole.

Geoffrey e Julio si sentono privilegiati. Le mamme di quei soldati li trattano come figli loro. Quando i famigliari visitano il cimitero di Darwin, assistono, sempre, a un miracolo. «I parenti camminano verso il cimitero con passo molto pesante, col cuore pesante e lo sguardo nel vuoto, che riflette una tristezza profonda», descrive Geoffrey. Ma dopo la cerimonia, dopo essere stati vicini ai loro cari, «tornano con passo leggero, col cuore leggero, con la testa alta e un sorriso, testimone di un profondo sollievo, di una pace ritrovata».

Julio e Geoffrey sono stati candidati per tre volte al Nobel per la Pace. La fondazione è impegnata per la memoria e l’educazione alla pace. E a Mar del Plata, sede della fondazione e base delle operazioni militari durante la guerra, si sta per costruire un memoriale che parla di vita. Sarà una replica del cimitero di Darwin, con 232 arbusti al posto delle croci, ciascuno col nome di un caduto e affidato alle cure dei bambini delle scuole.

Julio è convinto che le isole sono argentine, ma la guerra non è il modo di recuperarle. «Non ci sono guerre giuste, buone, né sante», ripete ovunque. Geoffrey pensa al bene dei kelpers, gli abitanti inglesi. Questo non impedisce che si sentano fratelli.

Elma Pelozo, la madre del primo soldato identificato, non aveva potuto visitarne la tomba. Portarvela, a 80 anni, in sedia a rotelle, da un remoto paesino del nord dell’Argentina, non era semplice, né economico. Ci riuscì nel 2020. «Col viaggio di Elma alle Malvinas – confessa Julio – ho trovato una sensazione di pace nel mio cuore, il dolce sapore del dovere compiuto». La stessa sensazione, per fare solo un esempio, della cugina del soldato Rubén Eduardo Márquez, il cui padre ora riposa vicino a lui. Ce le ha portate lei, laggiù, le sue ceneri.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons