Quell’abito del tradimento ai tempi dell’apartheid

Il regista Peter Brook, con semplicità e leggerezza affronta il dramma di una coppia sconvolta da una relazione extraconiugale di lei. L'incapacità di perdono si esplicita in punizioni psicologiche che portano ad un epilogo tragico, dove le scuse arrivano troppo tardi. Scenario è un sobborgo di Johannesburg
The suit di Peter Brook

"Coltivare la semplicità", consigliava il poeta e drammaturgo inglese Charles Lamb. Un precetto che si addice pienamente al regista Peter Brook. Sappiamo che, questo sapiente artigiano del teatro ha sempre dimostrato quanta ricchezza si possa trasmettere con la semplicità. Nel corso degli anni ha focalizzato sempre di più la sua attenzione sull’essenza della messinscena e del racconto, regalandoci spettacoli di grande magia alternati ad altri meno ammalianti.

Torna a emozionarci, tra risate e lacrime, con The Suit (spettacolo già allestito in francese col titolo Le costume), ispirato da un romanzo del 1950 dello scrittore sudafricano Can Themba (1924-1968), performance definita dallo stesso regista pièce en musique. In scena due appendiabiti utilizzati come finestre, armadi, porte e bus, tra sedie colorate che servono a delimitare diversi ambienti. Tre musicisti sono impegnati in alcuni ruoli, accanto a tre straordinari attori neri. Dentro una trama da vaudeville riecheggiano temi sociali che evocano l’inizio dell'apartheid situato a Sophiatown, cittadina a ovest di Johannesburg che sarà cancellata dalle ruspe dei bianchi con il trasferimento di migliaia di persone in zone più favorevoli alle azioni di polizia.

La storia, con umorismo e ironia iniziale, racconta di una giovane coppia, Filemone e Matilda, felicemente sposati, la cui vita improvvisamente sarà stravolta quando un giorno il marito scopre che la moglie ha una relazione con un altro uomo. Li coglie in flagrante. L’amante riesce a fuggire, ma lascia nella stanza il suo vestito. Sconvolto, ma senza usare nessun tipo di violenza, Filemone impone una punizione crudele: l’abito dell'amante dovrà rimanere in casa sempre in mostra, e sedere pure a tavola con loro, in modo da essere sempre ricordato. Per Matilda è l'inizio dell'inferno, e il suo sofferto desiderio di perdono si scontrerà con l’intransigente severità del marito.

Anche se col tempo il ménage famigliare sembrerà rientrare in una certa normalità, l’uomo alimenterà ulteriormente la penitenza inflitta mostrandola all’esterno: prima con la passeggiata domenicale, ulteriore simbolo umiliante del peccato della moglie; poi con una festa in casa dove lei, davanti agli invitati, sarà costretta a ballare con l’abito. Il tragico epilogo giungerà prima che l’uomo, finalmente persuaso a dimenticare e a perdonare, riesca a rimediare alla sofferenza provocata. Arriverà troppo tardi a casa. E lascia senza fiato la scena finale, consumata nel silenzio, in cui, frontalmente, seduto accanto a lei, le tiene la mano senza vita come un Otello senza più parole, con un indefinibile senso di colpa.

La meraviglia e la forza teatrale della messinscena di Brook deriva – oltre che dalla vivida evocazione di tempo e luogo sulla società sudafricana con gli uomini confinati in lavori umili e le donne dedite a opere di bene all'interno della comunità nera -, soprattutto dalla sua capacità di trasmettere con pochi mezzi, sentimenti universali. Ricordandoci che la donna è una cantante frustrata – una casalinga che aspira alla libertà sognando di poter cantare – Brook evoca anche l'esuberanza della vita cittadina attraverso la musica e il canto – da Miriam Makeba a Ella Fitzgerald – dando vita ad una serata vivace in casa della coppia coinvolgendo sul palcoscenico anche alcuni spettatori.

Uno spettacolo, The suit, che è una lezione di come con “leggerezza” si possano trattare con profondità tematiche “pesanti”. Che solo un maestro come Brook, e pochi altri, sa fare.

 

Al teatro Palladium di Roma, fino al 17; al Mercadante di Napoli dal 27/2 al 10/3.

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