Quella pena nascosta nel cuore del Cile
Una vecchia canzone di Violeta Parra, celebre cantautrice popolare cilena (è sua la famosa “Gracias a la vida”, cantata anche da Joan Baez) recita:
“Arauco ha una pena che non posso tacere/sono ingiustizie di secoli che tutti vedono imporre/nessuno vi pone rimedio pur potendovi rimediare
È dall’anno 1400 che l’indio vive afflitto/all’ombra della sua ruca (casa) di cinque secoli mai si seccherà
Da quei tempi molte lune sono passate/ oggi non sono gli spagnoli a farli piangere/oggi son gli stessi cileni che tolgono loro il pane”
Composta nel 1957, “Arauco ha una pena” fa parte del repertorio di questa artista che volle fare suo il dolore di un popolo oppresso, i mapuche, che da sempre hanno abitato il sud cileno, opponendosi prima agli inca, che cercarono di stabilire il loro impero, e poi agli spagnoli, – huinca in lingua mapuche, cioè i nuovi inca –.
La storia dice che nonostante le lotte e le battaglie, nè i conquistadores poterono sottomettere i combattivi abitanti dell’Araucania, che occupa al di qua ed al di là delle Ande il sud oggi cileno ed argentino, nè i mapuche poterono liberarsi degli spagnoli, ai quali si aggiunsero altri europei nelle successive ondate migratorie. Per risolvere la questione mapuche, verso la fine del XIX secolo, i governi dei due Paesi ricorsero allo sterminio ed alla pulizia etnica, come avvenne nel Far West statunitense. Le poderose spedizioni militari erano avvantaggiate dal telegrafo e dai primi treni, usavano cannoni e fucili a ripetizione contro le lance e le armi primitive dei mapuche. L’esito della “Campagna del deserto”, come è conosciuta in Argentina, e della “Occupazione dell’Araucania”, come la si denomina in Cile, era scontato. Gli indigeni vennero massacrati impunemente. La Società Rurale Argentina era ansiosa di mettere le mani su oltre 18 milioni di ettari di terre fertili, che vennero suddivise tra poco più di 500 proprietari, che contribuirono a finanziare la guerra. I sopravvissuti mapuche vennero venduti o regalati come schiavi e servi. Altri ancora vennero chiusi in riserve istituite in terre remote e improduttive.
Anche in Cile la situazione contribuì ad impoverire questo popolo, la cui crescita demografica non venne accompagnata dall’assegnazione di nuove terre. I pochi territori assegnati, coltivati da un numero crescente di persone, persero la loro fertilità e si degradarono.
Nel frattempo arrivavano nuovi europei, molti di loro tedeschi, e nel sud cileno vennero loro assegnate terre che da sempre erano state dei mapuche. Con gli anni, sono sorte varie organizzazioni che hanno cercato di ottenere giustizia per i mapuche, ma senza grandi risultati. Pertanto il conflitto rimane latente e, per la presenza di gruppi radicalizzati, nemmeno troppo di rado esplode con violenza. Tanto è vero che da vari mesi nella regione vige lo stato di eccezione costituzionale, con la presenza di un contingente militare. Gli attentati contro macchine agricole, trattori, bus sono frequenti. E purtroppo la violenza, da una parte e dall’altra, riscuote il suo tributo di sangue.
Si comprende pertanto l’importanza che ha avuto per i movimenti indigenisti (ed anche per i cittadini sinceramente democratici), che alla presidenza della Convenzione costituente sia stata nominata una donna mapuche, e che ben 17 dei costituenti, su un totale di 155, siano rappresentanti del 9% dagli abitanti di questo Paese, che si riconosce di origini indigene.
Il tema della Pace in Araucania sarà sicuramente tra i punti in agenda del governo del neo-eletto presidente Gabriel Boric, che a partire dal prossimo 11 marzo reggerà le sorti del Paese. Il presidente si è detto disponibile al dialogo, dopo che negli ultimi quattro anni le misure prese sono sempre state militari, e rinnegando gli impegni precedentemente assunti di promuovere la regione a partire dal riconoscimento dei diritti. Ma questo è un tema quasi tabù per la destra estrema, che si oppone perfino al riconoscimento del Cile come stato plurinazionale. Bisognerà vedere se le rondini promesse da Boric faranno una primavera. Sarebbe ora di dare corpo ad una giustizia negata da troppo tempo.