Quella meraviglia sul Garigliano

Genialità costruttiva ed eleganza caratterizzano il primo ponte sospeso in ferro realizzato in Italia e oggi risorto dalle distruzioni dell’ultima guerra

Ho ben nitidi i particolari di una visita fatta oltre trent’anni fa nei pressi dell’area archeologica di Minturnae, sul confine naturale tra Lazio e Campania segnato dal Garigliano, l’antico Liri. Volevo verificare con i miei occhi ciò che rimaneva del ponte borbonico che scavalcava questo fiume, fatto saltare in aria il 14 ottobre 1943 dall’esercito tedesco in ritirata verso Roma dopo l’armistizio. Di esso, dedicato ad uno dei sovrani più illuminati della dinastia borbonica napoletana, Ferdinando II, avevo letto meraviglie quale primo ponte sospeso in ferro realizzato in Italia e nell’Europa continentale: un magnifico esempio di architettura industriale del Regno delle Due Sicilie, all’avanguardia per i suoi tempi sotto l’aspetto tecnico-costruttivo.

A teorizzare un ponte del genere, che avrebbe facilitato la viabilità tra Campania Felix e provincia di Terra di Lavoro, era stato nel 1817 il mineralogista Carminantonio Lippi, che ispirandosi ai ponti sospesi in corda degli inca peruviani e ai ponti tibetani della Cina himalayana, aveva colto con largo anticipo le reali potenzialità del ferro nel campo edilizio. L’idea però era troppo innovativa per l’epoca. Respinta dagli ingegneri borbonici per le difficoltà opposte dal luogo paludoso, ma anche per quel riferimento a civiltà considerate culturalmente arretrate, venne ripresa nel 1825 da un ingegnere di origini lucane, Luigi Giura (1795-1852), e accolta dal re Francesco I di Borbone, che gli affidò progettazione ed esecuzione di un’opera così necessaria per il guado del fiume, sostituendo le fragili “scafe”. Ai componenti costruttivi metallici avrebbero provveduto le ferriere calabresi di Mongiana, di proprietà del generale Carlo Filangieri, principe di Satriano e duca di Cardinale.

ponte-borbonico

Durante i lavori, iniziati nel 1828, non mancarono i fieri oppositori e derisori, primi fra tutti quegli inglesi cui spettava il primato di questo tipo di costruzioni in Europa; un altro vespaio di critiche si levò al crollo di un’opera analoga a Parigi, il Ponte degli Invalidi, e dopo la chiusura per difetti di stabilità, sia a Londra che in Austria, di altri due ponti pensili in ferro. In effetti il grande problema era la flessibilità della lega ferrosa usata all’epoca, che rendeva tali manufatti oscillanti ai grossi pesi e al forte vento. Incurante delle polemiche, ai suoi ministri allarmati che consigliavano la sospensione dei lavori Francesco I rispose napoletanamente: «Lassate fa’ ‘o guaglione». Il “ragazzo”, infatti, sapeva il fatto suo: per aumentare la resistenza del ferro dolce da utilizzare, Giura fece produrre nelle fonderie di Mongiana una lega al nichel; e le travi così composte vennero rinforzate con trafilamento mediante un marchingegno di sua invenzione. Questo duplice trattamento, chimico e meccanico, conferì al materiale caratteristiche di resistenza alla corrosione e all’invecchiamento impensabili per quei tempi.

Al termine il ponte risultò lungo oltre 80 metri, sorretto da catene lunghe quasi 130 metri agganciate a quattro piloni egittizzanti alti 7 metri e ornati di altrettante sfingi. Un prodigio di snellezza, semplicità ed eleganza. L’inaugurazione avvenne il 10 maggio 1832 alla presenza del ventenne Ferdinando II, succeduto al padre due anni prima. In risposta alle rinnovate critiche dei britannici che davano come sicuro il crollo del ponte, lo stesso corpulento sovrano si piazzò al centro della campata e con la sciabola alzata ordinò, fra un tripudio di folla che gremiva le rive, il passaggio al trotto di due squadroni di lancieri e di sedici traini d’artiglieria carichi di materiali e munizioni.

Il successo riportato spinse il re a commissionare al Giura un altro ponte, stavolta nel Beneventano, sul fiume Calore, presso il comune di Solopaca: impresa più volte tentata, ma mai portata a termine a motivo delle piene che avevano spazzato via le opere iniziate. Dopo meticolosi sondaggi e calcoli, l’ingegnere progettò un secondo ponte pensile quasi gemello del primo, i cui lavori, iniziati nel luglio 1832, furono completati nel marzo 1835. Ponte che – anch’esso inaugurato dal sovrano con solenni riti –fu da lui intitolato alla consorte Maria Cristina di Savoia.

Quello sul Garigliano, già orgoglio delle Due Sicilie, resistette fino al 1943, quando i tedeschi della Linea Gustav, dopo avervi fatto transitare il 60 per cento della propria armata, compresi carri armati e panzer, lo fecero saltare. Tuttavia la distruzione interessò solo la campata centrale, mentre rimasero intatti i piloni. E proprio essi attrassero la mia attenzione in quel tratto del Garigliano folto di eucalipti e di canneti. A lungo ammirai il disegno dei capitelli ispirati alle colonne del complesso templare di Amon-Ra a Karnak, in Egitto, e le superstiti sfingi il cui volto raffigurava Mut, la dea sposa di Amon associata alle acque da cui avrebbe avuto origine il mondo. Tutto però abbandonato all’incuria. E utopica mi sembrò l’idea di una ricostruzione del ponte, non tanto per riprendere l’antico uso (da tempo era stato sostituito lì nei pressi da uno moderno in cemento armato) ma perché si perpetuasse un’opera che assommava in sé genialità, efficienza ed estetica.

Sbagliavo, per fortuna. Nel 1998, al termine di restauri finanziati dalla Comunità europea, il “Real ponte Ferdinando” avrebbe di nuovo scavalcato, identico al progetto iniziale, il fiume Garigliano. Stavolta adibito ad uso esclusivamente turistico-pedonale.

E il ponte Maria Cristina? Distrutto anch’esso dai tedeschi in risalita, ma meno fortunato del gemello, era già stato ricostruito nel 1947: purtroppo con una struttura completamente diversa e in cemento armato. Dell’antico rimangono i quattro piloni reggicatene e i leoni che li ornavano: delle copie però, in quanto gli originali sono stati trafugati in due riprese, tra il 2003 e il 2005.

 

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