Quella medaglia venuta dal cielo
«Nessuno è profeta in patria», dice il proverbio che nella lingua locale suona più o meno così: «Nadie es profeta en su tierra». La lingua è lo spagnolo, l’accento colombiano, il sorriso quello di Edwin Ávila, 24 anni, alto solo 167 cm ad essere generosi. Quanto basta per diventare grandi, raggiungere il gradino più alto del podio e vestire la maglia di Campione del mondo. Specialità corsa a punti, una delle discipline più spettacolari del ciclismo su pista, dove la classifica finale viene stilata in base ai punti conquistati nelle volate intermedie e con l’eventuale conquista di un giro sul gruppo degli avversari. Quaranta chilometri di pura adrenalina: sedici volate, scatti e controscatti, incidenti, cadute a sessanta all’ora e colpi di scena. Vince chi ha fegato, chi ha coraggio, chi non ha paura di azzardare, chi è in giornata di grazia che a volte coincide con un’altra grazia, quella divina.
Gabriela, la madre di Edwin, il giorno della corsa, qualche istante dopo aver aperto gli occhi, corre dal figlio e in un orecchio rivela il suo sogno: «Vederti vincere alzando la bandiera della Colombia, davanti alla nostra gente». Risposta: «Tranquilla mamma che Dio ti ascolta».
Detto, fatto: primo Edwin Ávila, Colombia, 70 punti, secondo Thomas Scully, 66, Nuova Zelanda, terzo Eloy Teruel, Spagna e la corsa in bilico fino all’ultima volata. Il velodromo di Cali esplode al colpo di reni finale, la profezia di Gabriela si avvera, il proverbio è smentito.
Edwin, colombiano, nato a Cali il 22 novembre 1989 è Campione del mondo, a Cali, in Colombia, a casa sua. Mamma Gabriela e papà Asistieron si ritrovano in lacrime sul podio ad abbracciare il figlio e quel sogno rivelato divenuto realtà. Pochi metri più in là ci sono Julieth, Johanna e Jaqueline, le tre sorelle. Gente semplice gli Ávila. Partiti da Cali, arrivati a Cartagena, immigrati a Bogotá con la speranza di una vita migliore, ritornati a Cali per riscuotere i sacrifici con gli interessi. Loro lo sanno bene: «Si meritano solo le cose per cui si è sofferto». E la vita gira, veloce, come la ruota di una bicicletta in un velodromo lanciata verso il traguardo.
Edwin alza la sua bandiera al cielo, saluta tutti, ringrazia tutti: suo papà, sua madre, il pubblico, l’allenatore, nonno Alcibiades per avergli fatto conoscere il valore di una bicicletta. Infine ringrazia Dio e la sua mano per la grazia, perché vincere va bene, ma riconfermarsi dopo aver già vinto nel 2011 il titolo mondiale nella corsa a punti, non è un gioco da ragazzi. Edwin saluta e promette di chiudere con l’università una volta sceso dal sellino per diventare medico, chirurgo plastico per la precisione. Lui è nella storia del suo Paese.
L’Italia, a Cali, scrive invece la storia al contrario. Nessuna medaglia con il quinto posto della coppia Elia Viviani-Marco Coledan nel madison (corsa a punti a squadre) che non contribuisce a salvare la faccia di una nazione che fino a qualche decennio fa metteva in pista fior fior di campioni del mondo ed olimpici. Maspes, Gaiardoni, Bianchetto, Beghetto, Damiano, Moser, Bellutti, Martinello e molti altri. Una dinastia che non ha lasciato discendenti. Quelli che potrebbero andare veramente forte, come Giorgia Bronzini ed Elia Viviani, dedicano al ciclismo su pista per esigenze di squadra solo i ritagli di tempo tra una corsa su strada e l’altra.
Così in Italia una quantità notevole di velodromi semi-deserti lasciati ai posteri invecchiano senza pietà, abbandonati a sé stessi, salvati solo in pochi casi da gente di buona volontà. Impianti al coperto? Uno, a Montichiari in provincia di Brescia, ed è un successo, un’occasione per dare quattro pedalate anche quando fuori piove, insegnare ciclismo e rimanere lontano dai pericoli delle strade. Un tempo eravamo noi a tracciare il solco, oggi siamo dietro, troppo, tra gli ultimi. Il Mondiale di Cali per l’Italia è stato l’ultimo giro di pista?