Quell11 luglio a Srebrenica
Lo scorso 28 giugno, quando il Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia decideva di cancellare l’accusa di genocidio a Ratovan Karadzic, leader politico dei serbo-bosniaci negli anni del conflitto, tra il 1992 e il 1995, il pensiero è corso subito all’episodio più drammatico di quegli anni: Srebrenica. In quel luogo, l’11 luglio 1995, oltre ottomila persone, distinte per sesso (solo gli uomini) ed età (risparmiati anziani e bambini), vennero trucidate dalle milizie serbo-bosniache per il solo fatto di appartenere a un gruppo etnicamente differente: si trattava di “non-serbi”, identificati con l’essere musulmani (in quel momento qualificazione solo funzionale e di poca rilevanza sul versante religioso). L’obiettivo era di fare della pulizia etnica un “fatto compiuto” e così garantire il controllo serbo su parte del territorio dell’attuale Bosnia-Erzegovina nel contesto dei negoziati che portarono qualche mese dopo agli Accordi di Dayton. Quegli accordi tra l’altro davano vita a un “artificiale” Stato di Bosnia-Erzegovina, costruito attorno a equilibri o rapporti di forza ancora oggi precari.
Ma la sorpresa di fronte alla notizia che giungeva dal Tribunale dell’Aja è durata solo per un momento. La decisione di scagionare Karadzic, infatti, non riguardava l’accusa del genocidio commesso a Srebrenica. E non solo per i riscontri oggettivi – per commettere genocidio basta pianificarlo o non impedirlo, non è necessario eseguirlo – che vedono imputato insieme a Karadzic anche Ratko Mladic, il capo militare serbo-bosniaco, tra gli esecutori materiali del genocidio. Quello di Srebrenica è un episodio che tocca certamente la responsabilità penale di quanti hanno commesso il crimine, ma coinvolge responsabilità politiche non meno gravi, poiché riguarda comportamenti frutto di azioni, ma spesso anche di omissioni, della Comunità internazionale con le sue istituzioni (Onu e Nato in primis) e dei singoli Paesi (Serbia, ma anche i Paesi dell’Unione europea). Basta il ricordo dei 300 caschi blu che, chiamati a proteggere l’area di Srebrenica, la lasciarono qualche giorno prima dell’11 luglio, nell’imminenza dell’operazione dei serbo-bosniaci, motivandola con mancate condizioni di sicurezza.
Trascorsi 17 anni, mentre i familiari delle vittime ripropongono il loro dolore e aumentano le persone identificate dalle 74 fosse comuni a cui si dà finalmente sepoltura nel luogo simbolo di Potocari, non mancano le voci, pur autorevoli, di chi ritiene che quella di Srebrenica sia stata un’azione militare, non un genocidio. E questo cambierebbe tutto lo scenario: il genocidio come crimine internazionale non si prescrive per coloro su cui ricade l’accusa; inoltre impone la cosiddetta giurisdizione universale in base alla quale tutti gli Stati hanno il diritto-dovere di giudicare i colpevoli o di cederli a chi vuole o può giudicarli (in questo caso, poi, c’è un Tribunale internazionale competente). Non ultimo impone ai politici responsabili non solo scuse formali (quella della Serbia arrivò nel 2010), ma atti di riparazione specifici per i danni provocati alle vittime. E su questo tema, sempre dall’Aja, la Corte Internazionale di Giustizia è stata già chiara, pronunciandosi nel gennaio del 2007 dopo una denuncia della Bosnia-Erzegovina contro la Serbia.
Disconoscere che c’è stato genocidio, quindi, non è solo un modo per tranquillizzare le coscienze, anche se viene proposto come strumento di riconciliazione. La riconciliazione è ben altro: non è negazione della giustizia, bensì accertamento dei fatti e accettazione delle decisioni conseguenti, ma con uno spirito di condivisone e desiderio di ricominciare un cammino comune, nonostante quanto è avvenuto. Qualcosa più di un monito!
Monito che potrebbe servire per evitare analoghe situazioni. Come a Srebrenica, oggi in Siria i caschi blu sono impediti di intervenire e lasciano il campo di azione nonostante decisioni e piani di azione adottati e formalmente accettati dalle parti. Sembra quasi una resa di fronte a sommosse e campagne militari, e in particolare a conflitti interni a un Paese, abbandonati a un destino nel quale la barbarie e la non compliance degli standard umanitari è sistematica.
C’è da chiedersi se l’attuale equilibrio internazionale possa ancora dare risposte adeguate. Non regge più l’idea che tutto dipende dai veti incrociati che bloccano il Consiglio di sicurezza, la questione è più ampia poiché riguarda la modifica del concetto di conflitto e di conseguenza degli obiettivi di pace e sicurezza, non più esprimibili attraverso i contenuti della Carta delle Nazioni Unite, anche nelle forme di cooperazione regionale (le operazioni affidate alla Nato nell’area euroasiatica o all’Ecowas per l’Africa sono anch’esse inadeguate). Le vittime di Srebrenica ci chiedono – la questione parte dal basso, non c’è alternativa… – almeno di concorrere a costruire, ognuno secondo le proprie responsabilità e funzioni, un ordine internazionale dove il rispetto della vita umana non resti uno slogan, ma il risultato di regole condivise ed applicate, di una cooperazione effettiva e di un’attenzione non strumentale all’altro.
Siamo tutti convinti che il ricordo dell’11 luglio 1995 non dovrebbe esistere. E non solo per Srebrenica.