Quel velo di marmo
Vi riproponiamo un itinerario quanto mai attuale, alla scoperta della Cappella Sansevero di Napoli, giudicata in una ricerca di TripAdvisor, il museo più amato d'Italia. Un viaggio tra opere d'arte avvolte in un alone di leggenda e mistero
Pochi luoghi monumentali riflettono la personalità del committente come la Cappella Sansevero, nel cuore della Napoli antica. È una impressione quasi fisica; tu avverti di entrare non in un ambiente, ma in un pensiero, in un universo: quello di uno spirito eletto del secolo dei lumi, che in ogni particolare del complesso di pitture, sculture, decorazioni che impreziosiscono questa semplice navata rettangolare, ha lasciato il suo segno. Il personaggio in questione? Il duca Raimondo di Sangro, dei principi di Sansevero, figura di prino piano nella vita culturale, sociale e politica della Napoli del 700. Fu infatti uomo d’armi e letterato, accademico della Crusca e cavaliere dell’Ordine di san Gennaro nonché gran maestro della massoneria partenopea, scienziato e inventore la cui figura è tuttora avvolta in un alone di leggenda e di mistero.
Per anni don Raimondo attese ad abbellire questa cappella gentilizia, chiamandovi a lavorare, fra gli altri artisti, i più rinomati scultori dell’epoca: dai napoletani Sammartino e Celebrano al veneto Corradini, al genovese Queirolo. Ed è proprio l’insieme scultoreo il pezzo forte, quello che più impressiona, che attrae o respinge, a seconda dei casi. Accanto alle effigi di esponenti illustri del casato, ecco figure allegoriche, intese a celebrarne le virtù e le glorie: le une e le altre tuttavia un po’ estranee allo spirito odierno, nella loro marmorea e fredda bellezza, appesantita da simbolismi. Al massimo si potrà sorridere di fronte alla statua del buon Cecco di Sangro, che fuoriesce da una bara scoperchiata, spada in pugno come un Corsaro Nero all’arrembaggio (allusione ad un episodio guerresco della vita di questo gentiluomo).
Poi, isolata al centro della navata, la statua che ha reso celebre la Cappella Sansevero: quel Cristo velato del Sammartino, di stupefacente perfezione tecnica, che mostra quasi in trasparenza, sotto un velo appunto, le fattezze del Redentore morto. Un sottile sentimento lirico pervade la scultura, s’insinua fra piega e piega, in un gioco di luci e di ombre: assente il doloroso distacco della morte, Cristo ci è vicino, palpabile: appena un velo lo separa da noi.
È vero, non sono da meno per artificio la Pudicizia, del Corradini (anche qui un corpo velato) e il Disinganno del Queirolo (che si divincola in una rete ricavata anch’essa mirabilmente dal marmo). Ma davanti a tali sculture, anche se ci si stupisce e si resta ammirati, non ci si commuove, né si contempla: sono allegorie, non una “persona”. Fra tante celebrazioni e lambiccamenti, l’unica parola veramente comprensibile, che arriva a toccare il fondo dell’uomo di tutti i tempi, è quella espressa dall’Uomo dei dolori.
Sul Cristo velato la leggenda ha favoleggiato, a proposito dell’effetto di trasparenza esso raggiunto, di un vero velo gettato sul corpo scolpito dal Sammartino, velo che don Raimondo avrebbe trasformato, con procedimento chimico, in marmo. Ma come mai, dopo un tale vertice, siano stati preferiti al giovane scultore altri artisti per le rimanenti statue, questo sì è ulteriore mistero del principe di Sansevero.