Quel ponte controverso

Ancora morti e feriti per un disastro ferroviario. A poco serve rispolverare le statistiche per ricordarci che il treno resta pur sempre il mezzo più sicuro per viaggiare e che le ferrovie italiane sono fra quelle che hanno collezionato meno incidenti. Sarà facile ribattere che ci sono due Italie, quella dell’efficienza e quella dell’abbandono. E ci si potrebbe avvitare in una spirale senza fine. È giusto, si chiedono in molti, pensare alla costruzione del ponte sullo Stretto, quando rimangono così gravemente carenti le infrastrutture? Quanto meno resta da definire il problema delle priorità negli interventi dello stato. Come è già stato giustamente rilevato dallo stesso arcivescovo di Messina, mons. Marra. Come non essere d’accordo? A quel nodo cruciale per la storia e per l’economia del Belpaese, che è il raccordo fra il continente e la Sicilia, fanno capo strutture viarie assolutamente inadeguate. È vero che fino a non molti decenni fa il problema veniva bypassato raggiungendo direttamente da Napoli via mare tutti i maggiori porti dell’isola. Ma qualcosa è cambiato, almeno nelle intenzioni: esiste anche la Calabria sulla via della Sicilia, esistono crescenti prospettive turistiche; un’agricoltura potenzialmente ancora in espansione e, sempre di più, si propone l’industria. Inevitabile che la polemica intorno al progettato ponte sullo Stretto si faccia oggi più rovente. Serve. Non serve. Quei soldi si possono spendere meglio. È una vita che sento parlare del ponte fra Scilla e Cariddi. Già nei primi anni dopo la guerra, quando tutto ciò che era americano era bello per definizione e da imitarsi, si cominciò a parlare di quella enorme campata sospesa a tiranti d’acciaio che avrebbe ridicolizzato il ponte di Verrazzano a New York e il Golden Gate a San Francisco. Con i nuovi materiali e con le nuove tecnologie, tutto era diventato possibile. Se ne parlò e se ne riparlò, da allora, ad ogni tornata elettorale, alternando varie proposte che, almeno a livello di studio di fattibilità, non si potevano scartare a priori. Pericoloso e vulnerabile in quanto potenziale obiettivo militare veniva reputato il ponte sospeso, ai tempi della guerra fredda; ed anche assai precario, in balia degli eventi sismici, così frequenti in quel punto d’attrito fra le due zolle continentali. Si sarebbe potuto, proponevano alcuni, appoggiare sul fondo del mare una o più grandi condotte, sufficientemente flessibili da reggere ai terremoti, dentro cui fare correre autostrada e ferrovia. Ma a conti fatti, si finiva per accorgersi che quelle condotte sarebbero state anch’esse vulnerabili. Meglio allora congiungere le due sponde con un istmo, forse più costoso, ma più sicuro. Ne sarebbe però risultato completamente alterato l’ecosistema dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, per i quali quello stretto di mare è come la vena iugulare. Ovviamente, forti interessi premevano per il mantenimento dei traghetti, sicché, di rinvio in rinvio, siamo approdati al nuovo millennio con un niente di fatto, se non una montagna di progetti e un’altra di miliardi spesi per approntarli. Perché parlarne ancora, dunque? Forse perché questa volta potrebbe essere la volta buona, visto che al grande passo si è impegnato un governo che in fatto di decisionismo non ha confronti? Forse. Restano valide le obiezioni di ieri, che tuttavia non avevano fatto paura a chi era pronto a farsi un merito di includere quegli stessi progetti nei propri programmi e oggi li avversa. A questo punto, non dovrebbe restare che dire: ben venga il ponte. Perché la gente lo vuole e la tecnica ne consente la costruzione. Quanto ai pericoli, che non senza fondamento si sollevano ancora sulla sua vulnerabilità e sulle prevedibili implicazioni mafiose, rappresentano una sfida che dovrebbe impegnarci a vincerli, perché, di questo passo, regrediremmo verso l’immobilismo totale. Essa consiste soprattutto nel rimuovere le cause di tali minacce. E proprio su questo fronte, il ponte potrebbe acquistare una valenza nuova, non solo simbolica. A riproporre questa considerazione sono in molti che parlano del ponte come di una mano tesa, al centro del Mediterraneo, verso l’altra sponda; guardando non più solo alla Sicilia, ma anche all’Africa. Dopo l’allargamento ad est, l’Europa non potrà ignorare a lungo i paesi che si affacciano da sud sul Mediterraneo; e che già sono drammaticamente presenti con la loro pressione migratoria. La Sicilia, in particolare, avrà una funzione sempre più importante al centro di questo mare. È infatti essa stessa un grande pontile proteso verso la Tunisia; il braccio di mare che la separa dall’Africa è già solcato da cavi oceanici e condotte sottomarine; e domani potrebbe esserlo anche da un tunnel come quello che attraversa la Manica. Per non parlare degli agganci culturali. Insomma, il discorso è aperto. Deve solo continuare a incrementarsi mettendo in atto, via via, le sue inesauribili potenzialità. Ma qui ritorna l’obiezione di fondo: non avrebbe alcun senso quel ponte, se non si risolvesse prima il problema delle vie d’accesso ad esso, stradali e ferroviarie, e cioè della Salerno-Reggio Calabria che deve essere rapidamente allargata e della tratta tirrenica della Messina-Palermo, ancora da completare. È un discorso di priorità, dunque, non di esclusione. E la previsione è che la costruzione del ponte produrrà un’accelerazione nel completamento di quelle infrastrutture. Naturalmente sempre che anche il piano di finanziamento si dimostri attuabile e non intralci altre priorità evidenziatesi di recente, come il completamento delle reti idriche. La posta è davvero alta. C’è chi, ottimisticamente, accetta scommesse.

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