Quel pasticciaccio brutto di Baghdad

L’uccisione del generale Soleimani e le risposte iraniane fanno temere un’escalation nel confrontotra Usa (e i loro alleati) e iraniani (coi loro amici) in territorio iracheno. Si scherza col fuoco. Gli unici felici sembrano i jihadisti…  

Venerdì 3 gennaio, poco dopo mezzanotte, un drone statunitense MQ9 reaper (del costo di oltre 10 milioni di dollari) ha sganciato 4 missili anticarro aria-terra Agm-114 Hellfire (100 mila dollari ciascuno) che hanno intercettato a circa 2 Km dall’aeroporto di Baghdad 2 Suv sui quali viaggiavano il generale iraniano Qasem Soleimani e il politico iracheno Abu Mahdi al Mouhandis, vice capo delle milizie sciite Hashd al-Shaabi, insieme ad otto persone della scorta. È stato possibile identificare i pochi resti non carbonizzati delle dieci persone colpite solo tramite l’analisi del Dna.

«Abbiamo attaccato la scorsa notte per fermare una guerra, non per iniziarla», si è giustificato il presidente Usa Donald Trump all’indomani dello strike. Vista la condizione di conflitto permanente in cui si trovano da decenni sia Iraq che Iran, quale inaudita guerra futura il drone statunitense avrebbe fermato? Da come si stanno mettendo le cose, più che fermare una possibile guerra l’attacco statunitense sembra qualcosa di molto più vicino ad una azione terroristica o almeno ad una pesante escalation di violenza che sta incendiando l’intera regione. Torna alla mente l’annuncio dello stesso Trump il 27 ottobre scorso dopo l’uccisione di al-Baghdadi in Siria, quando assicurò che «il mondo è più sicuro». È un modo per lo meno discutibile di intendere la sicurezza (o forse di intendere il mondo?), quello di Trump: la sicurezza affidata alla “eliminazione tombale” del nemico. Niente a che vedere con tregue, diplomazia, dialoghi, trattative, accordi ed altre amenità del genere, per non parlare di rispetto e non ingerenza.

Richiesta di Impeachment per TrumpMa quello che sconcerta pesantemente, al di là dei bisticci a suon di missili, è l’arroganza di un potere che sembra aver perso ogni riferimento culturale attribuendosi il diritto di stabilire chi debba vivere e chi debba morire, senza alcuna considerazione per il diritto dei popoli e degli Stati. La motivazione che giustifica l’ingiustificabile è: Soleimani minaccia i miei interessi, quindi io ho il diritto-dovere di eliminarlo. Certamente il generale Soleimani non era un cuore tenero, anzi era verosimilmente un militare per il quale i diritti umani, le aspirazioni di libertà e la vita delle persone venivano dopo molte altre cose. Ma questo non conferisce alcun diritto all’omicidio. A nessuno, singolo o Stato.

Lo strike statunitense oltre a non avere alcuna giustificazione umana e politica, ha messo in moto una serie di reazioni assolutamente prevedibili. La più grave è che l’Iran ha definitivamente accantonato i limiti e i controlli previsti dal Jcpoa (l’accordo sul nucleare iraniano) per l’arricchimento dell’uranio, vale a dire che fra pochi mesi il governo iraniano sarà in grado di produrre bombe nucleari. I missili per sganciarle su Gerusalemme o sulle basi Usa nel Golfo li ha già da tempo. Era questo che il governo Trump voleva? Una scusa per attaccare l’Iran e scatenare la Terza guerra mondiale? Oppure voleva soltanto mandare un avviso a chi sta cercando con successo di scalzare l’egemonia statunitense dal Medio Oriente (gas e petrolio), cioè la Russia e la Cina che dell’Iran sono alleate? O peggio voleva semplicemente incrementare l’appoggio in patria dell’opinione pubblica?

Sul versante iracheno, la situazione, se possibile, si è ancora più incattivita, perché non solo Soleimani era considerato dalla maggioranza degli iracheni, a torto o a ragione, un amico dell’Iraq, ma insieme a Soleimani è stato ucciso, a Baghdad, anche Abu Mahdi al Mouhandis, comandante di Kata’ib Hezbollah e vice capo delle Forze di mobilitazione popolare Hashd al-Shaabi (circa 80 mila uomini), che non sono solo state decisive per la sconfitta del Daesh in Iraq, ma che da luglio scorso fanno parte delle Forze armate irachene.

In un Paese alle prese con enormi problemi sociali, spaccato al suo interno e con una ribellione trasversale che coinvolge sunniti e curdi, ma anche sciiti, contro un apparato di governo incapace e corrotto, una ribellione soffocata nel sangue con oltre 400 morti e migliaia di feriti, l’uccisione di un politico e militare iracheno per mano statunitense è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Al parlamento di Baghdad, 170 deputati (il 52%, anche senza i deputati sunniti e curdi), con l’appoggio del premier Abdul-Mahdi, per quanto dimissionario, hanno chiesto la cacciata di tutti i militari della coalizione anti-Daesh, compresi gli oltre 5 mila militari Usa presenti in Iraq in 13 basi (altre 22 basi Usa sono in Paesi vicini). I primi missili iraniani hanno colpito la base Usa di Ayn al-Asad, in Iraq. Trump ha subito risposto dicendo che i soldati Usa non lasceranno l’Iraq e giocando al “pacificatore” ha aggiunto: «L’Iran sembra arretrare, il che è una buona cosa per tutti gli interessati e un’ottima cosa per il mondo». E ha concluso con un messaggio al popolo iraniano e ai suoi leader: «Gli Stati Uniti sono pronti per la pace con tutti coloro che la vogliono». Ma Trump sembra così nascondere la mano che ha appena premuto il grilletto, con una credibilità prossima allo zero. I caos attuale sembra rendere felici solo i jihadisti. E questo rischia purtroppo di essere solo l’inizio.

(Sull’argomento leggi anche Errori di calcolo tra Usa e Iran)

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